giovedì 17 maggio 2012

Equitalia e dintorni


Equitalia e dintorni

In questo gran parlare di proteste, di crisi, di atti esemplari, di valutazione sulle lotte (quando ci sono) si ha la sensazione nettissima di ritrovarsi a discutere meramente sotto un profilo di compatibilità, di ricerca di consenso.

Dopo aver ossessivamente parlato di precariato generico, di proletarizzazione, di crisi, quando questi meccanismi si mettono effettivamente in moto, spiazzano tutti.
Non troviamo strano che oggi, Equitalia diventi un simbolo, che polarizzi l’attenzione sociale e dei media.


Quando si parla della spesa sociale si prende di solito in considerazione solo il lato delle uscite. Il calo delle entrate fiscali dello Stato è dovuto senz’altro al calo dei profitti dovuto alla crisi, quindi a una diminuzione del prelievo fiscale sui profitti e vanno lette in questo senso tutte le manovre di detassazione operate per ristabilire il livello precedente dei profitti stessi: fiscalizzazione degli oneri sociali, sgravi contributivi alle imprese, cassa integrazione ecc.. La prima beneficiaria dei tagli alla spesa sociale è quindi l’impresa.
Questo ha portato un parallelo e progressivo aumento della tassazione sul lavoro, in parte anche su quello autonomo. L’aumento vertiginoso del debito pubblico, sviluppatosi in modo esorbitante negli anno 70/80 si può leggere come uno spostamento di denaro a favore dei grandi gruppi finanziari in primo luogo, e poi a favore di ceti intermedi possessori di capitali. Non vogliamo dilungarci, ma quando parliamo di finanza non le leggiamo come entità separata dalla produzione, ma come elemento interno al medesimo meccanismo capitalista, in questo senso non si può parlare di un capitalismo produttivo contrapposto a quello finanziario.
Attualmente l’ulteriore contrazione della spesa da luogo a una lotta selvaggia fra gruppi sociali desiderosi di mantenere ameno le quote già ottenute. L’ulteriore polarizzazione sociale accentua questa dinamica, ed è cosi che padroncini e lavoratori salariati si trovano in prima battuta a doversi confrontare con i medesimi problemi.

Il problema non è quello di vedere lavoratori e padroncini assieme contro gli “usurai”, cosa di per se non nuova, dentro un processo di crisi, ma saper cogliere le dinamiche che avvengono.

Generalmente per i pro-rivoluzionari, la vittoria o la sconfitta di un’azione non si misura sulle immediate concessioni positive che l’azione diretta può strappare ai dominatori, ma sull’allargamento qualitativo di nuovi rapporti sociali prodotti dalle lotte stesse. Bisogna rompere quel binomio riforma-rivoluzione, per fare necessariamente un passo in avanti, binomio che si infrange non per atti volontaristici, ma dentro le dinamiche stesse dalla lotta di classe e dell’accumulazione capitalista. In questo senso ogni critica all’inter-classismo di lotte specifiche risulta spuntata, anzi fa parte anch’essa del problema. Invece di cogliere la de-statalizzazione come un effetto positivo della crisi (ben più radicale dei miti neo-liberisti), perché dentro un processo di de-integrazione sociale, si continua ad assumere un punto di vista da ragionieri fiscali o si sognano finanzieri con le bandiere rosse… Dove alla fine anche nelle aree cosiddette radicali, si cerca un riformismo radicale (e di classe) da contrapporre a quello che oggi va per la maggiore. Oggi sono tutti per riformare, per riequilibrare… Se esistono differenze a sinistra crediamo che queste siano da leggersi più nel processo di racket dei gruppi e aree stesse più che nella loro effettiva convergenza programmatica.

Ma per chi vuole abbandonare quel gioco, per i pro-rivoluzionari occorre rompere la dialettica tra riforme e rivoluzione.
La dialettica di riforma e rivoluzione, come ricordava la Luxemburg nella sua polemica contro il tradimento del riformista Bernstain con l’avanzare di un capitalismo che sviluppava sempre maggiore integrazione è stata storicamente messa fuorigioco già allora.

Rosa Luxemburg sottolineava “Mentre la rivoluzione è l’atto creativo della storia delle classi, l’attività legislativa è il tran tran politico della società. Il lavoro di riforma legale non vive di impulsi propri, autonomi dalla rivoluzione, si muove in ogni periodo storico solo sulla linea fintantoché perdura in esso l’effetto dell’ultima pedata rivoluzionaria o, concretamente detto, solo nel quadro della forma sociale, espressa dall’ultimo sovvertimento politico”.

Già allora la dialettica tra riforma e rivoluzione, in un capitalismo concorrenziale non funzionava, ma era meno dubbia di quel che è diventata negli attuali processi di crisi.
Le riforme sociali sono sempre state strumenti della contro-rivoluzione, indipendentemente da chi le portava avanti sia settori di sinistra o di destra. Il New Deal fu lanciato da governi democratici, la pianificazione dall’URSS, mentre un grande impulso allo sviluppo dello stato sociale fu dato in Europa dal fasciamo e dal nazismo. Oggi riducendosi i margini delle manovre “politiche” i governi di centro-sinistra come di centro-destra non possono che perseguire rispetto allo stato sociale i medesimi obiettivi, vale a dire una sua progressiva riduzione. Variano solo da un governo all’altro le tattiche usate o la capacità di far passare le varie manovre dividendo i lavoratori fra di loro.

In questa fase è naturale che si sviluppino movimenti e obiettivi eterogenei, il dato per i pro-rivoluzionari importante non è l’efficacia immediata o la purezza di queste dinamiche, ma cogliere dove esistono quei processi di affermazione della de-integrazione da parte di settori di classe. Oggi mai come prima l’unico programma minimo per la classe è un programma anti-economico, se letto dentro l’economia politica. Per fare un esempio: non è quindi importante contrapporre l’edilizia popolare al mutuo sociale (che alla fine dei conti sono la medesima cosa), ma partecipare, sviluppare le occupazioni di stabili sfitti, dove dentro la dinamica di queste lotte c’è la rottura del piano riforma/rivoluzione, la stessa cosa dicasi per l’auto-riduzione di bollette, ecc.. Le stesso lotte salariali classiche, per salario, orario, regolamentazione contrattuale, non vanno quindi valutate rispetto agli obiettivi specifici che si danno ma rispetto alla dinamica che creano. Una dinamica che in questa specifica fase di crisi, il processo di de-integrazione del capitale medesimo, può favorire una maggiore generalizzazione di nuovi rapporti sociali.

Detto in parole più semplici, chi non riesce a pagare un affitto, le bollette, ecc… non gli importa gran che di trovarsi a fianco di chi a problemi fiscali aziendali, se mai il problema è per chi ideologizza tutto questo (e spesso è estraneo pure al problema specifico stesso), dimenticandosi che nel momento in cui i lavoratori cercano di difendersi, di non pagare la crisi, indipendentemente da ciò che pensano, possono rompere il meccanismo dell’economia politica, proprio perché oggi il riformismo al contrario del capitale (la de-integrazione) sta creando le basi per una nuova lotta di classe radicale.

Alcuni compagni/e di Connessioni
Primavera 2012
http://connessioni-connessioni.blogspot.it/

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