venerdì 13 gennaio 2012

LE FORME DI APPROPRIAZIONE

LE FORME DI APPROPRIAZIONE

Fondamento del materialismo storico è l’idea che lo sviluppo delle forze produttive, quindi del lavoro sociale in quanto divisione del lavoro, porti necessariamente ad una socializzazione crescente delle strutture sociali, cioè alla piena realizzazione della società come comunità umana.



Ma questo processo reale si riflette ideologicamente a livello sovrastrutturale nel pensiero economico di ogni epoca, in particolare in quello della società borghese in quanto fase culminante di tale sviluppo. Per cui, poiché essa prelude necessariamente al comunismo, e quindi in parte lo anticipa, così il suo pensiero economico contiene in nuce i principi del comunismo. La sua logica interna e le contraddizioni che ne seguono, sia a livello concettuale che pratico, la spingono verso questo approdo. Certamente non sono le idee e le loro contraddizioni il motore della storia, ma ne costituiscono solo il riflesso. Sono la rappresentazione distorta ma allusiva delle forze reali delle storia, vale a dire quelle dell’attività pratica umana, cioè del lavoro sociale. E’ possibile quindi seguire i due sviluppi, quello del movimento reale e quello ideologico, come processi che si illuminano a vicenda. Particolarmente chiarificatori sono i concetti fondamentali dell’ideologia borghese in campo economico, in particolare il concetto di proprietà, per il quale lo sviluppo delle sue contraddizioni conduce direttamente al comunismo.

1. LEGGE DEL VALORE E LEGGE DEL LAVORO

Il rapporto di produzione capitalistico si presenta in forma duale: da una parte nella produzione come organizzazione del lavoro, dall’altra nella circolazione come scambio della forza lavoro contro salario. Le due forme differiscono radicalmente per diversi aspetti, ma in entrambe il rapporto appare nella forma giuridica di rapporto tra proprietari indipendenti. Sono però due forme diverse di proprietà: nel primo caso si tratta di proprietà originaria, nel secondo di proprietà derivata. Nel processo di lavoro il produttore è proprietario del bene in quanto ne è il creatore, cioè vale la legge del lavoro. Invece nel rapporto di scambio l’appropriazione è regolata dalla legge del valore, per la quale una proprietà può essere alienata solo a condizione che il proprietario acquisisca un’altra proprietà equivalente alla prima in termini di lavoro astratto e socialmente necessario.
Nella società borghese originaria, quella della produzione mercantile semplice, le due leggi, sono in armonia. La prima legge crea la proprietà, la seconda la trasforma cambiandone l’oggetto, in quanto permette al proprietario di trasformare il bene prodotto in valore d’uso specifico per il proprio consumo individuale. Ma presto le due leggi entrano in conflitto. Accade cioè che la proprietà derivata si autonomizza, poiché il valore creando esso stesso valore diviene fonte originaria della proprietà, mentre il lavoro, come fonte della proprietà, decade sempre più e diviene marginale. Cioè alla universalizzazione della legge del valore corrisponde il venir meno della legge del lavoro. Infatti parallelamente alla trasformazione di tutta la produzione sociale in merce il produttore stesso viene posto come merce, cioè viene reificato come forza lavoro e ridotto a semplice fattore di produzione che come tale può entrare nella circolazione ed essere alienato. Ma ciò comporta anche l’alienazione di tutto il prodotto. In tal modo il principio di appropriazione attraverso il lavoro viene sostituito da quello dell’appropriazione attraverso la sola proprietà dei fattori, separata da una partecipazione attiva del proprietario (che può esserci, e allora è considerata lavoro salariato, ma di norma è assente). La sostituzione diviene possibile quando il valore astratto si oggettiva nella forma di denaro e la ricchezza in tale forma si concentra nelle mani del capitalista, incontrandosi infine con l’indigenza del produttore, possessore unicamente della propria forza lavoro. Essendo costretto a vendere per comprare, deve vendere la sua unica proprietà, la capacità di lavoro, e insieme ad essa il diritto di appropriazione sul prodotto.
In questo slittamento della legge del valore da mezzo di ridistribuzione di valori d’uso a fonte originaria della proprietà, appare fondamentale il ruolo del capitale monetario. Dal punto di vista del produttore ciò che accade è che il denaro può sostituirsi al produttore materiale, alla vera ed unica fonte del prodotto, e personificarsi nel capitalista, che può così divenire proprietario dei fattori e perciò del prodotto. Dal punto di vista del capitalista, è il capitalista stesso che attraverso il capitale monetario diviene il produttore reale, cioè diviene il demiurgo del processo di produzione come se vi operasse personalmente ed esclusivamente. Per cui acquisisce un diritto altrettanto esclusivo sul prodotto, mentre il produttore reale viene totalmente privato di esso, salvo vederlo ritornare in suo possesso, ma solo in parte, come salario, e solo nella misura necessaria alla sua riproduzione giornaliera e generazionale. Ma tale recupero ha luogo a posteriori, dopo un braccio di ferro contrattuale e sovente politico, dopo esserne integralmente espropriato. Diviene quindi operante una nuova legge di appropriazione, che nega quella del lavoro.
Ciò è quanto avviene nella prima metamorfosi del capitale, nella quale esso, acquistando i fattori della produzione, da denaro si trasforma in merce. Questa trasfigurazione del denaro è possibile solo sulla base della legge del valore, che da una parte rende omogenei i fattori di produzione permettendo di quantificarli e quindi di confrontarli tra loro, e dall’altra consente il loro mutamento da valore astratto in valore d’uso concreto, destinato ad essere consumato produttivamente. Ciò avviene nella seconda metamorfosi dove il capitale merce diviene capitale produttivo, cioè valore d’uso consumato nel corso del processo di lavoro. In questa fase del ciclo del capitale si realizza la negazione della legge del lavoro implicita nella legge del valore dispiegata. Infatti qui viene realizzato il plusprodotto e immediatamente sottratto al produttore, negando ogni sua pretesa su di esso. Il prodotto ripercorre a ritroso le due precedenti metamorfosi, essendo nuovamente trasformato prima in merce, poi in denaro, ma il produttore resta escluso da questi momenti, che sono di pertinenza esclusiva del capitalista.

2. LA LEGGE DI PROPORZIONALITA’

La legge di appropriazione del plusprodotto sulla base della proprietà dei fattori è in contraddizione con la legge del lavoro ma nell’impresa capitalista quando la proprietà è indivisa ciò non appare. Qui i soggetti che partecipano al processo produttivo sono due, capitale e forza lavoro, e appaiono diversi e contrapposti fra loro, non come fattori della produzione che stanno sullo stesso piano. Rapporti si chiariscono quando la proprietà è frazionata, in quanto i contributi alla produzione sono diversi ma quantificabili e confrontabili fra loro. Qui la legge di appropriazione del plusprodotto è che la quota spettante ad ogni partecipante al processo produttivo è proporzionale al valore del contributo, cioè la ripartizione del plusprodotto avviene in base ad una legge di proporzionalità. Questa è una nuova forma di appropriazione che si affianca alle altre due, in parte modificandole e in parte sostituendole, e come queste allude ad una nuova forma di proprietà, quella della comunità di lavoro. Cioè la proprietà del prodotto complessivo è di pertinenza della totalità dei produttori in quanto sorgente effettiva del lavoro sociale, forma effettiva assunta dalle forze produttive nel capitalismo.
Il principio di proporzionalità nasce dal capitalismo maturo, poiché rispecchia la regola in base alla quale vengono distribuiti i dividendi in una società per azioni, cioè in proporzione al capitale versato. Infatti in tale ambito il suo carattere di classe è evidente in quanto viene applicato solo al capitale monetario, non a quello produttivo. Cioè solo se i contributi dei partecipanti al processo produttivo sono in denaro. Non appena gli stessi contributi appaiono concretamente come lavoro, cioè quando si considera l’apporto materiale conferito al processo produttivo, il contributo dei lavoratori viene escluso dalla ripartizione del plusprodotto, che, detratte le quote di capitale anticipato, cioè l’ammortamento, come reintegrazione del capitale consumato, viene di fatto ripartito esclusivamente tra coloro che partecipano al processo conferendogli i mezzi di produzione. Infatti il capitale monetario, poiché conferisce una parte del prodotto al lavoro come salario, appare come proprietario dei soli mezzi di produzione e titolare dell’intero plusprodotto solo come tale. Ma in generale il capitale è proprietario dei fattori perché li acquista ed è per questo che può valorizzarli e con essi se stesso.
Se invece si applica la proporzionalità commisurando il contributo alla produzione in termini di lavoro – quindi in termini di lavoro vivo quello dei lavoratori, di lavoro morto quello contenuto nei mezzi di produzione – il principio di proporzionalità implica una partecipazione dei produttori al plusprodotto. Quindi la proporzionalità applicata al capitale monetario è in diretta opposizione alla legge del lavoro mentre è compatibile con la legge del valore, di cui peraltro è una conseguenza.
Naturalmente quale delle due applicazioni della legge di proporzionalità sia attuata lo decide chi è in grado di anticipare il capitale. Ma questa è una questione di potere contrattuale, estranea alla coerenza interna delle leggi. Infatti il nesso fra i due modi di applicazione della proporzionalità è la sostituzione dei fattori di produzione in quanto valore d’uso, con il capitale monetario, che può acquistarli sul mercato. Tuttavia questa possibilità è definita dal modo di produzione vigente, cioè definita giuridicamente. Ma la questione è evidentemente di natura politica. D’altro canto, se i proprietari dei fattori prima dell’alienazione dei fattori al capitale monetario si associassero sulla base della parità di diritti sul prodotto, la ripartizione del plusprodotto secondo la proporzionalità seguirebbe come un fatto naturale. Sono le condizioni storiche che impediscono che ciò accada e che sia invece il capitale monetario a riunire ed organizzare i fattori e quindi ad impadronirsi di tutto il prodotto. Quindi ciò che appare alla superficie semplicemente come un libero atto di compravendita tra proprietari indipendenti, in realtà è il mascheramento di un rapporto di potere. La possibilità per il denaro di acquistare i fattori di produzione dipende dal rapporto di produzione, che è in pari tempo tecnico e politico, cioè un rapporto di dominio. I due modi di applicazione della legge di proporzionalità e se sia applicato l’uno o l’altro, sono conseguenza del rapporto di produzione.
Il principio del lavoro afferma semplicemente che tutto il prodotto va al lavoro, mentre il principio di proporzionalità afferma che ogni fattore di produzione viene remunerato con un compenso costituito da due parti: reintegrazione del fattore consumato e partecipazione al plusprodotto proporzionale al contributo in lavoro. Quindi come al lavoro vivo spetta il salario e una quota del plusprodotto, così al lavoro oggettivato spetta l’ammortamento e la partecipazione. Osserviamo che l’ammortamento consta del lavoro vivo del costruttore e dei mezzi di produzione consumati per produrre i mezzi di produzione stessi, quindi include implicitamente il salario del costruttore.
Consideriamo il caso in cui la legge di proporzionalità sia applicata come estensione della legge del lavoro, cioè distribuendo il plusprodotto in ragione del contributo computato in lavoro. In primo luogo va osservato che, nonostante il principio di proporzionalità sia in opposizione alle due leggi, quella del valore è indispensabile quanto quella del lavoro per la sua applicazione. Infatti ciò che importa della legge del valore è che essa è necessaria al fine di confrontare i diversi lavori nella divisione del lavoro. Solo sulla sua base è quindi possibile applicare prima la legge di proporzionalità, quindi la legge del lavoro, e a quel punto determinare la ripartizione del prodotto. Se l’applicazione della legge del valore va ristretta solo al confronto dei lavori, la legge del lavoro va applicata in tutta la sua estensione, cioè per ogni lavoro produttivo, quindi per ogni consumo produttivo, sia esso consumo di lavoro soggettivo che di lavoro oggettivato, cioè di lavoro vivo e lavoro morto, quindi lavoro vivo e mezzi di produzione.
Quando tali principi sono applicati al capitalismo da essi consegue il diritto al profitto che costituisce la partecipazione riconosciuta al possessore del lavoro oggettivato, conseguenza che però si estende al lavoro, con un analogo riconoscimento. Ma il principio del lavoro riconosce tale diritto solo al produttore diretto, non a chi ha acquisito tale diritto acquistando il lavoro altrui. Quindi i capitalisti, non essendo produttori diretti possono tutt’al più aver diritto a ricevere la loro quota dai produttori diretti in quanto sono loro che hanno diritto a tutto il prodotto. Ne deriva una inversione dei ruoli produttivi. Non sono più i capitalisti ad appropriarsi di tutto il prodotto per poi procedere alla ripartizione, ma tale funzione spetta ai produttori diretti, che quindi avrebbero un ruolo analogo a quello che il capitalismo riserva agli azionisti. Ma ciò significa l’instaurazione dell’autogestione, cioè del socialismo. Viene cioè stabilita una simmetria nei ruoli produttivi di capitale e lavoro.
Il comunismo equivale ad una radicalizzazione della legge del lavoro, per cui il lavoro oggettivato dà diritto al plusprodotto solo se esso è lavoro diretto del possessore. Così il capitale monetario non può più operare come produttore e può essere solo consumato dal capitalista, mentre i mezzi di produzione rimasti senza acquirente possono essere socializzati. Quindi la legge del lavoro implica non l’espropriazione dei capitalisti, ma la trasformazione della loro proprietà in consumo improduttivo. Ciò equivale ad una socializzazione dei mezzi di produzione con indennizzo. Tale atto può apparire arbitrario ma non è così, innanzitutto perché è conseguenza della legge del lavoro, poi in quanto i mezzi di produzione sono un prodotto sociale, come appare dall’analisi storica svolta più avanti.

3. LE LEGGI ECONOMICHE COME CONVENZIONI

Prima di procedere su quel terreno osserviamo che in tale contesto emerge una seconda notevole conseguenza della legge del lavoro, una conseguenza che contraddice il principio secondo il quale i mezzi di produzione non creano plusvalore. Ciò va spiegato rilevando che il diritto al plusvalore non è una legge nel senso di una legge naturale, e cioè che questo prima di essere un fatto oggettivo è un fatto giuridico. Del resto si giustifica da sé essendo il lavoro oggettivato lavoro pregresso del possessore, il quale ha ragionevolmente lo stesso diritto del produttore immediato ad una partecipazione al plusprodotto. Diritto che, oltre il plusprodotto, comprende la reintegrazione del consumo sia dello strumento che del costruttore, cioè l’ammortamento, che include il mantenimento del costruttore, quindi la riproduzione di entrambi. Inoltre la legge del lavoro dispiegata confuta la pretesa del capitalista, oltre all’ammortamento, ad una remunerazione del capitale costante. La questione non è la remunerazione in quanto semplice reintegrazione, ma la provenienza del plusvalore. Ma poiché il plusvalore esiste sulla base di precise convenzioni, la questione è semplicemente chi ne abbia il diritto. La risposta più semplice e plausibile è: il lavoro. Invece nel capitalismo vi è una grave contraddizione. Sebbene le due parti della remunerazione, la reintegrazione e la partecipazione appaiano inscindibili, in realtà non è così: per il lavoro vi può essere reintegrazione senza partecipazione, ciò che non può accadere per il denaro.
Le considerazioni precedenti mostrano come nel capitalismo la legge del valore e quella del lavoro siano in opposizione. Il principio di proporzionalità è una sintesi che tenta di superare entrambe. Ma si è visto che ciò è possibile solo restringendo il campo d’azione della prima e ampliando quello dell’altra. Il vero superamento si ha con l’abolizione della legge del valore e la piena attuazione di quella del lavoro. Infatti il passaggio al comunismo si ha con l’abolizione di tutte le precedenti norme che collegano contributo alla produzione e diritto al prodotto e quindi con il riconoscimento del carattere sociale della produzione, per cui tale deve essere anche la ripartizione. Abolizione quindi di norme che hanno lo scopo di “dare a ciascuno il suo”, problema che è alla base di ogni questione sociale. Cioè, il problema della proprietà.
Senza voler qui addentrarci in tale questione, ci limitiamo ad osservare che la questione della proprietà presenta due facce. Da una parte l’istituzione di un rapporto di produzione che permetta di utilizzare al meglio le forze produttive esistenti. Dall’altra distribuire il prodotto alle classi e agli individui in modo da non creare tensioni sociali. La prima finalità si realizza enunciando principi di funzionamento dei rapporti economici che hanno la forma di leggi scientifiche oggettive. Esse sono in parte oggettive in quanto le forze produttive esistenti sono in parte determinate come forze naturali, ma sono determinate ancor più come forze sociali e lo sono storicamente in misura crescente. Ed in tale misura sono leggi sociali, quindi convenzionali. La seconda finalità viene perseguita istituendo norme giuridiche, che anch’esse hanno carattere convenzionale e lo sono doppiamente in quanto determinate dai rapporti di produzione esistenti nei luoghi della produzione. In realtà queste ultime svolgono la sola funzione di conferire valore normativo alle prime, che a loro volta giustificano le seconde, analogamente a come un presunto diritto naturale può essere posto a fondamento di un codice giuridico. In entrambi i casi si tratta di principi non solo convenzionali ma relativi ad un modo di produzioni determinato, quindi non assoluti.

4. INCOMPATIBILITA’ DELLE DUE LEGGI

Il motivo essenziale dell’incompatibilità delle due leggi di appropriazione è che determinano due forme antitetiche di proprietà: la legge del valore nasce dalla proprietà privata e genera la proprietà privata, cioè scambia una proprietà particolare con un’altra proprietà particolare; la legge del lavoro nasce dalla proprietà collettiva e si risolve in proprietà collettiva. Questo carattere della legge del lavoro non appare immediatamente evidente in quanto non risulta tale il carattere comune del lavoro, quindi dei mezzi di produzione e della forza lavoro stessa.
In origine, nelle società di raccoglitori, allevatori ed agricoltori, cioè nelle società nelle quali il principale mezzo di produzione è la terra. Essa è proprietà comune per diritto di occupazione, occupazione originaria ad opera della comunità, quindi l’uso particolare di essa è libero per tutti i membri della comunità, ciascuno dei quali ha diritto al possesso della terra, ma non alla proprietà,-- che rimane alla comunità,-- nella misura in cui la lavora. Di qui la legge di appropriazione attraverso il lavoro.
Infatti la legge del lavoro è fondata sul fatto reale che il produttore è in quanto tale proprietario o almeno possessore di tutti i fattori della produzione. Cioè il produttore esiste unicamente insieme ai suoi strumenti di lavoro. Quindi questi non appaiono, se non eccezionalmente, come merci. Ciò significa che la legge del valore si applica non all’ interno della produzione ma solo all’esterno, al consumo improduttivo. I fattori della produzione sono considerati in blocco e per lo più non come merce.
Quando iniziò la decadenza della proprietà comunitaria, quindi il lungo processo di privatizzazione della terra, il rapporto di produzione che venne imposto dai proprietari a coloro che rimasero esclusi dal processo di privatizzazione, perciò costretti a lavorare la terra altrui, fu un rapporto di dominio fondato essenzialmente sul potere delle armi e della superstizione. Infatti, con la nascita della proprietà privata, il legame che univa il lavoro con la terra non venne spezzato immediatamente, ma incluso nella proprietà della terra. Terra e lavoro continuarono a lungo ad essere considerati un tutto inscindibile, come un’unica forza naturale. Tale modo di considerare il lavoro coinvolgeva anche l’artigianato, dove il maestro era considerato tutt’uno con i suoi strumenti di lavoro.
Con lo sviluppo dell’artigianato, poi dell’industria, i mezzi di produzione in quanto prodotto del lavoro, cioè in quanto mezzi di produzione sempre meno naturali, si separano dal lavoro e si pone il problema di come la proprietà di questi possa alterare la legge di appropriazione. Finché essi rimanevano facilmente reperibili, era possibile mantenere l’unità produttiva come unione di lavoro e mezzi di produzione e il problema non si poneva. Ma con lo sviluppo della tecnica la produzione dei mezzi di produzione si trasforma in una specializzazione e inoltre cresce l’entità dell’investimento, per cui diviene sempre più difficile per il produttore disporre di essi. Quindi proprietà dei mezzi di produzione e lavoro si separano. Questa circostanza, che la separazione è determinata dallo sviluppo delle forze produttive, viene occultata dal processo di espropriazione dei produttori, forma in cui si realizza. Ma tale espropriazione ha potuto essere definitiva solo per l’impossibilità per il produttore di costruire da sé i propri strumenti di lavoro.
Ma questa circostanza determina anche un altro fatto di fondamentale importanza. Le condizioni della produzione sono un prodotto collettivo, in quanto frutto del lavoro sociale. Nella produzione mercantile semplice il lavoro sociale appare come risultato inconsapevole della concorrenza tra singoli lavori indipendenti, e non viene percepito come tale. Invece l’affermarsi del capitalismo porta con sé un nuovo livello di sviluppo della divisione del lavoro, che determina la trasformazione degli strumenti di lavoro in meccanismi, cioè in fattori della produzione che elevano straordinariamente la produttività del lavoro, ma che per essere a loro volta prodotti necessitano una grande concentrazione di risorse e della collaborazione di un gran numero di competenze. Ma produzione sociale significa, per il principio del lavoro, proprietà sociale.
Si tratta evidentemente di un ritorno ad una forma di proprietà, quella comunitaria, che in passato era prevalente, ma ad un livello di sviluppo superiore, in quanto nel frattempo le forze produttive si sono evolute. In origine tali forze erano quasi integralmente naturali, essendo costituite essenzialmente dalla produttività naturale, simboleggiata dalla terra. Ora all’epoca moderna sono al contrario quasi totalmente frutto dell’attività umana, cioè della tecnologia che utilizza i risultati ottenuti con lo sviluppo della scienza. Le forze produttive naturali spontanee (terra, sole, ecc.) sono state sostituite dalla conoscenza delle leggi naturali, che è un prodotto umano e sociale. Ma il fatto più rilevante è che è divenuto chiaro per chiunque che le forze produttive sono un prodotto sociale, sono identiche al lavoro sociale. Tale carattere del lavoro istituisce un nuovo modo di appropriazione, quindi una nuova forma di proprietà, quella della comunità di lavoro. Proprietà comune diversa da quella primitiva. Questa era fondata sulla comunanza di stirpe, ma in realtà sulla necessità di difendere la terra come risorsa dalle minacce esterne. La comunità di lavoro è invece fondata sulla divisione del lavoro, in quanto strumento produttivo dalle potenzialità illimitate.
Pertanto la socializzazione del lavoro e dei mezzi di produzione non è una semplice aspirazione dettata da principi volontaristici, ma una necessità storica, che si riflette nell’ideologia che permette agli individui di pensare e praticare i rapporti sociali e quelli materiali in particolare. Quindi anche il marxismo è una teoria storica, nel duplice senso di teoria della storia e di teoria che ha un valore storico in quanto essa stessa determinata e inserita nel corso storico. In entrambi i sensi è tale in quanto rileva tale tendenza alla socializzazione come tendenza immanente alla storia. In particolare svolge tale analisi attraverso una critica dell’economia borghese che ne evidenzia le contraddizioni, che sono il riflesso di quelle materiali, così come emergono sia dalla prassi che dai concetti stessi.

Valerio Bertello Torino, 2 gennaio 2012

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