lunedì 14 novembre 2011

L’esercito industriale di riserva alimenta la speculazione

Antonio Pagliarone*

“Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario di una accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa. viceversa. la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo  l’avesse allevato a sue proprie spese , e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione”
(K.Marx Il Capitale Libro I pag 692. Ed Riuniti) 

Accanto alla tesi piuttosto diffusa secondo la quale ci troveremmo di fronte ad una nuova fase di crescita economica determinata da forti aumenti della produttività legati all’introduzione delle cosiddette “New technologies”[1] se ne sta sviluppando un’altra secondo la quale la realizzazione di ulteriori profitti sarebbe legata al “taglio dei costi” che, permettendo di produrre merci a prezzi sempre più bassi, garantirebbe l’esistenza di un sistema socio-economico “low cost”.


La polarizzazione delle società industriali avanzate ovvero la de-integrazione

Ormai è risaputo che a partire dalla metà degli anni 70 del secolo scorso la quota di reddito destinata ai lavoratori nei paesi OCSE si è continuamente ridotta nel tempo cosicché una percentuale sempre più piccola della popolazione detiene la stragrande maggioranza della ricchezza nazionale.
Il grafico 1 sottostante è tratto dall’articolo “2004: income down, poverty up”(disponibile sul sito di Doug Henwood LBO)[2] e si riferisce al trend delle entrate annuali per gli strati sociali della popolazione americana dal 1967 al 2003


Grafico 1[3]
USA -Entrate annuali dei più poveri, della classe medie e dei ricchi 1967-2004 (dollaro 2004) 



(Fonte Census Bureau)

Si nota come negli Stati Uniti le entrate annuali degli strati più poveri non abbiano subito sostanziali variazioni in tutto il periodo preso in esame, infatti nell’intervallo 1973-2004 si registra complessivamente un aumento  del 9,8%, ma si può notare che nel periodo 1999-2004 si è verificata una perdita dell’8,7%  Per le classi medie invece le entrate sono aumentate in media del 15,3% nello stesso periodo, ma sono diminuite regolarmente dal 1999 al 2004, anno in cui si registra un calo di quasi il 4% (dati aggiustati con l’inflazione). Le stime ufficiali indicano poi che negli Stati Uniti le entrate familiari sono ritornate ai livelli del 1947. In contrasto, i dati mostrerebbero che il 5% degli strati più ricchi[4] hanno visto la quota di reddito nazionale loro destinata crescere continuamente a partire dal 1973 con un incremento del 73% se riferito al 2004[5], da cui ne risulta una crescente polarizzazione della società americana. Negli Stati Uniti  il Coefficiente di Gini (che indica il grado di polarizzazione della società e che va da 0 per una società completamente egualitaria ad 1 in quella dove vi è massima disuguaglianza, ossia 1 persona detiene tutta la ricchezza) è sempre sceso a partire dagli anni 30 con la Grande Depressione (0,51 nel 1933) ma dalla fine degli anni 60 ha continuato ad aumentare passando da 0,377 fino all’attuale 0,466 mostrando una progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.
Se analizziamo i dati relativi alle economie più sviluppate possiamo suddividerle in base al reddito in tre grandi aree

1)      Area anglosassone (Australia, Canada, Regno Unito ed USA in cui la disuguaglianza è massima (Coeff. Gini 0,322 con alti tassi di povertà (in media il 13,8% della popolazione)
2)      Area Europea (Francia, Italia, Germania ed Olanda) con meno disuguaglianze, (anche se all’interno di questi paesi vi sono differenziazioni come l’Olanda e l’Italia) con un Coeff. di Gini pari a 0,283 e tasso medio di povertà del 9,1%
3)      Area Scandinava con la Svezia, Finlandia e Norvegia più egualitarie (Coeff. di Gini 0,272) e tasso di povertà al 6,1%
Ma occorre andare a ricercare quali siano le cause che hanno determinato la crescita vistosa  della disuguaglianza nei paesi anglosassoni, specie negli USA, e capire come mai le entrate del 5% dei più ricchi subiscono una impennata dai primi anni 90 fino al 2000[6].
La previsione fatta da Marx di un continuo immiserimento della società attraverso il progressivo ingresso di ampi strati delle classi medie nel famoso proletariato si sta avverando in maniera eclatante. Nel 2004 1 milione e centomila americani sono entrati nello stato di povertà raggiungendo i 37 milioni stimati in precedenza, ed è il quarto anno consecutivo in cui si verifica un aumento di questo genere che tra l’altro oggi interessa prevalentemente le popolazioni di razza bianca di età compresa tra i 18 ed i 64 anni. Occorre precisare che negli USA viene considerata nella soglia di povertà un’entrata annuale familiare media di 19.307 dollari, comunque esistono stime alternative più vicine alla realtà che tengono conto dei benefit dello stato, delle spese mediche, della casa ecc che fanno innalzare sicuramente di molto il tasso ufficiale di povertà del 12,5%  registrato nel 2005 fino al 20%, portando gli USA ad essere tra le peggiori nazioni industrializzate per quanto riguarda la disuguaglianza dei redditi ed il tasso di povertà battuta solo dal Messico e dalla Russia.
Non solo, per alcune zone degli Stati Uniti andrebbero conteggiati anche gli immigrati irregolari che secondo stime recenti sarebbero ben 12 milioni. Nel marzo 2005 è stato raggiunto il record di 35,2 milioni di immigrati ben due volte e mezza il numero che ha caratterizzato la grande ondata del 1910[7].
In condizioni di questo genere ne consegue un declino dei consumi che negli USA sono calati del 9,8% tra il 1990 ed il 2000 secondo il Consumer Expenditures Survey del BLS. Un declino che procede tuttora proprio per effetto della diminuzione delle entrate che interessa la gran parte della popolazione americana e tale tendenza risulta più evidente anche nelle altre nazioni a capitalismo avanzato. Riportiamo in Tabella 1 l’andamento delle spese per il consumo di Beni rispetto a quelle per i Servizi negli USA dal 1950 al 2004

Tabella 1: Spese per consumi individuali destinate ai Beni rispetto ai Servizi relative al reddito ed al prodotto nazionale degli USA (1950-2004)

Anno                                Beni                              Servizi
                                    1950                                67,1%                              32,9%
                                    1960                                59,1 %                             40,9%
                                    1970                                55,1%                              44,9%
                                    1980                                51,8%                              48,2%
                                    1990                                44,9%                              55,1%
                                    2000                                41,7%                              58,3%
                                    2004                                41,0%                              59,1%

Fonte: Bureau of Economic Analysis

Si nota chiaramente un progressivo declino della quota delle entrate destinata al consumo di beni rispetto a quella destinata ai servizi che si inverte a partire dagli anni 80 quando vengono avviate quelle “riforme” che tendevano a realizzare tagli al welfare state.
In effetti il processo di immiserimento crescente, iniziato tra gli operai a partire dalla metà degli anni 70, ha ormai interessato praticamente tutti i lavoratori[8], infatti il salario medio degli operai è cresciuto continuamente nei decenni che vanno dal 1830 al 1970 ma a partire dal 1974 è diminuito o al massimo ristagna come riportato nella tabella 2

Tabella 2: Salario medio degli operai USA nel corso dei decenni dal 1964 al 2004
1964
$302,52
1974
314,94
1984
279,22
1994
259,97
2004
277,57

Fonte: Labor Research Associates of New York  basati su dati dell’ US Department of Labor, Bureau of Labor Statistics; salari espressi in dollari 1982

Attualmente più di 13 milioni di operai americani guadagnano meno di 7,25 dollari l’ora, la maggior parte di essi sono lavoratori a tempo pieno. Il 70% della forza lavoro riceve un salario ben al di sotto del livello federale pari a 5,15 dollari l’ora.
La  pressione sui salari è derivata dal continuo aumento dell’esercito industriale di riserva  anche nelle aree a capitalismo sviluppato. In tabella 3 riportiamo l’andamento del tasso di disoccupazione nei paesi maggiormente industrializzati a partire dal 1960 dal quale si nota l’impennata che si verifica dalla metà degli anni 70.
Tabella 3
Disoccupazione
                       Francia   Germania    Italia  Regno Unito    USA
1960-64           1,44         0,49           3,46       1,61              5,72
1965-69           2,04         0,67           4,13       1,86              3,84
1970-74           2,71         0,71           4,27       2,53              5,41
1975-79           4,88         2,15           5,09       4,60              7,02
1980-84           7,92         4,44           6,99       9,58              8,32
1985-89          10.08        5,90           9,88       9,47              6,23
1990-94          10,48        6,28           9,57       8,82              6,59
1995-99          11.54        8,41          11,75      7,03              4,93
2000-02          10,49        8,10          11,08      5,93              4,59
       
                       Francia   Germania     Italia  Regno Unito    USA
1960-74            2,06        0,62            3,95      2,00              4,99
1975-84            6,40        3,30            6,04      7,09              7,67
1985-99          10,28        6,09            9,73      9,14              6,41

(Nota: Per la Francia 1960-64 fonte BLS)
Fonte: OECD Employment Outlook

La debole inversione di tendenza esibita nel biennio 2000-2002 dal tasso di disoccupazione negli Stati Uniti non è stata determinata dalla ripresa economica tanto decantata dai media, ma da una  nuova occupazione creata negli USA e non solo, caratterizzata da lavori definibili come “Odd Jobs”[9]; inoltre i dati ufficiali mostrano un continuo allungamento del periodo di non occupazione e che il numero di nuovi occupati non riesce a bilanciare il numero di persone che perdono il lavoro. Infine è importante sottolineare che i criteri di rilevazione della disoccupazione da parte del BLS, dell’ILO e degli altri istituti ufficiali lasciano molto a desiderare[10].
Il Census Bureau nel suo rapporto del 2005 riporta anche la quota di americani che non  hanno una copertura assicurativa sanitaria: ebbene si è passati dai 40 milioni del 1999 ai 46 milioni di cittadini senza tessera sanitaria del 2005
In poche parole stiamo assistendo ormai da qualche decennio alla progressiva de-integrazione dei lavoratori e alla disintegrazione della società tipica di uno dei paesi economicamente più avanzati.

Una economia completamente trasformata

Negli ultimi trent’anni il grado di utilizzo della capacità produttiva nelle imprese americane è stato in media pari all’81%, ma negli ultimi cinque anni si è passati ad una media del 77%. Strano per una economia in fase di ripresa.
Si può osservare che negli Stati Uniti la composizione tecnica di capitale (ossia il rapporto tra capitale fisso e numero di operai ristagna a partire dai primi anni 80 e dalla fine degli anni 90 non si verifica una crescita degli investimenti in capitale fisso[11] Di conseguenza i macchinari divengono sempre più obsoleti per cui la produttività deve essere garantita da uno sfruttamento sempre crescente - a partire dai primi anni 80 - di una forza lavoro estremamente ridimensionata. Attualmente si stima che negli Stati Uniti l’orario di lavoro  raggiunga in media quasi 50 ore settimanali mentre nel Regno Unito le stime ufficiali riportano più di 45 ore lavorate settimanalmente. Ciò significa che per mantenere lo stesso standard di vita si accettano continui peggioramenti delle condizioni di lavoro oppure si ricorre sempre più spesso all’indebitamento, che ha subito una impennata a partire dagli anni 90 (frequentemente si verificano entrambe le condizioni specie negli USA). Infatti  nel 1994 il debito complessivo degli americani ammontava a 4.206 miliardi di dollari, ma nel 2004 sono stati raggiunti i 9.709 miliardi. Alla fine del marzo 2006, come riferisce la Federal Reserve Flow of Funds, il debito privato ha raggiunto gli 11.800 miliardi di dollari, una cifra pari al 300% del PIL; sbalorditivo se confrontato al dato relativo al 1929 che era pari al 230% del PIL[12] .
Ad una analisi molto superficiale sembrerebbe così giustificata l’idea corrente secondo la quale le nazioni maggiormente industrializzate dell’occidente verrebbero inondate dalle merci provenienti dai paesi in via di sviluppo visti i prezzi estremamente concorrenziali.
Ma se i beni low cost provenienti da paesi come la Cina e l’India avessero invaso i mercati occidentali i dati sui consumi non sarebbero così mortificanti. A parte i beni di lusso, il consumo dei quali è in crescita ma riservato ad una percentuale irrisoria della popolazione (che non può reggere certo una economia industrialmente avanzata), il declino generale dei consumi dimostrerebbe che le merci di modesta qualità come quelle cinesi hanno sostituito solo in parte determinati beni di consumo disponibili sul mercato prodotti in Occidente. Inoltre è universalmente noto che tali beni sono limitati ad alcuni comparti, tra i quali il settore tessile la fa da padrone[13]. D'altronde anche se sui mercati occidentali stanno arrivando dalla Cina i prodotti del settore meccanico e quelli high tech, la qualità degli stessi lascia molto a desiderare (in fondo paghiamo poco beni che valgono molto poco). Infatti: “Se per ridurre forzosamente i costi di produzione a breve termine si può agire sulla forza-lavoro, alla lunga diviene possibile intervenire anche sugli input materiali, sostituendo materie prime e materiali superiori con materie prime e materiali inferiori come input sia dei prodotti di consumo che dei mezzi di produzione; nonché, più in generale, semplicemente abbassando la qualità dei prodotti finiti. In questo modo si ottiene certamente una diminuzione della quantità di lavoro speso per unità di prodotto, ma accompagnata da una diminuzione del valore d’uso delle merci prodotte per unità di lavoro speso[14].
Ma  ciò che interessa è verificare se esista una certa correlazione tra bassi salari e prezzi bassi, che poi costituisce la tesi sostenuta dalla maggior parte degli osservatori occidentali. Studi in merito a tale questione dimostrerebbero che non vi è alcuna relazione tra prezzi e salari, per cui dovremmo seriamente mettere in discussione tale luogo comune diffuso ad arte, specie nei riguardi dei prodotti cinesi[15], per far ingoiare ai lavoratori occidentali salari e condizioni di lavoro sempre più mortificanti.  In realtà una correlazione evidente è quella tra produttività e prezzi secondo la teoria classica, per cui gli alti tassi di produttività del lavoro in Cina (leggi spremitura dei lavoratori fino all’osso) garantiscono prezzi veramente irrisori relativi a beni di qualità molto scadente ma sicuramente acquistabili dai bassi salari dei paesi occidentali. Diversamente, una produttività più bassa per i beni prodotti nei paesi maggiormente industrializzati determina prezzi più elevati per gli stessi (ma di qualità superiore).
D'altronde, contrariamente a quanti credono nel miracolo della globalizzazione, nemmeno i fantomatici investimenti esteri verso i paesi in via di sviluppo hanno permesso alle economie occidentali di riprendersi dalla recessione in corso da lungo tempo. Infatti, anche se in aumento,
ammontano ancora al 3-4% l’anno  quindi vuol dire che il restante 96-97% degli investimenti è rivolto verso l’interno[16].
Anche se molti osservatori non lo notano, prosegue il declino sul lungo periodo dell’accumulazione e del saggio del profitto e non solo nell’economia americana. Riportiamo nel grafico 2 sottostante[17],  l’andamento di lungo periodo del saggio del profitto USA dal 1929 al 2001.

Grafico 2


Si osserva il declino di lungo periodo anche se viene evidenziata sempre con un tratteggio una ripresa a partire dai primi anni 80, ma parallelamente assistiamo ad un calo dell’accumulazione sempre a partire dallo stesso periodo per cui l’aumento di profittabilità è giustificato solo dalla speculazione[18]. Ormai risulta evidente che a partire dagli anni 80 assistiamo ad una inesorabile trasformazione delle dinamiche con cui si realizza profitto in un sistema capitalistico che perde sempre più i suoi connotati tradizionali. La dinamica speculativa inizialmente concentrata sui cambi e sui i titoli si è espansa verso i nuovi strumenti dei derivati che richiedono investimenti sempre maggiori viste le condizioni di rischio[19] e più recentemente verso la speculazione edilizia. Così la produzione di beni va realizzata con il massimo profitto che deve essere immediatamente spostato all’interno di tale dinamica speculativa. Lo stesso vale anche per i nuovi profitti realizzati in Oriente. Purtroppo sono vane le speranze di molti che credono possibile una parentesi speculativa caratterizzata da una bolla che in seguito esploderà in un big bang salutare per la ripresa degli investimenti nel settore produttivo. Per dirla con Giussani, oggi  “Se il capitale monetario è usato per essere scambiato contro azioni già esistenti e continua poi a circolare nel circuito di questa specie di transazioni, dal punto di vista della riproduzione del capitale è perso per sempre”.
In tali condizioni ogni espediente è utile per reperire capitale e destinarlo alla dinamica speculativa, per cui  l’esercito industriale di riserva sia nei paesi in via di sviluppo sia nei paesi industrializzati alimenta la speculazione.

L ’ “immiserizing growth” e la Cina di Rawski

Più volte sono stati citati i lavori di Thomas Rawski, uno dei massimi esperti dell’economia cinese, per ridimensionare il ritornello sul boom della Cina che cantano gli osservatori occidentali di ogni tipo[20]. Rawski non solo mette in discussione i sistemi di rilevazione dei dati statistici relativi al PIL cinese, ma registra inoltre il declino dei consumi interni alla cosiddetta grande potenza economica del nuovo secolo ed una tendenza delle famiglie verso il risparmio. Analizzando i dati ufficiali relativi al consumo nelle campagne e nelle aree urbane rispetto alle entrate familiari, Rawski nota una incongruenza nelle rilevazioni ufficiali in quanto “i dati nazionali riportano che le vendite al dettaglio sono aumentate più rapidamente delle spese pro-capite nei bilanci familiari, ed è una differenza troppo elevata per essere imputata all’aumento della popolazione che è di circa l’1% l’anno”. Inoltre ulteriori indagini hanno mostrato che “una crescita moderata dei redditi ha alimentato nella popolazione la tendenza verso il risparmio[Bing 2001], mettendo quindi in evidenza il continuo declino del rapporto tra  spese per il consumo e redditi – l’esatto contrario di quanto implica l’andamento delle vendite al dettaglio. In Cina la crescita dei consumi privati è rimasta sempre molto al di sotto della crescita del PIL sin dalla metà degli 1990, infatti il rapporto tra i consumi privati e PIL è sempre declinato raggiungendo nel 2005 il livello più basso del 40%[21].
Possiamo affermare che attualmente il consumo dei cinesi rappresenta solo il 9 % di quello americano ed il 3% del consumo mondiale, valori questi che non esaltano certo la tesi sui consumi interni come volano dell’economia del paese.
Interessante uno scritto di Rawski del giugno 2004   volto a criticare la tesi dell’ Immiserizing Growth cinese, nel quale egli afferma che “un mutamento economico, inclusa l’apertura al commercio, genera comunemente sia “guadagni” che “perdite” L’affermazione secondo la quale i guadagni derivati dal commercio interessano tutti i partner commerciali implica che vi sia una crescita netta sia del PIL sia delle possibilità di consumo. Se i guadagni riescono a compensare le perdite  senza venire intaccati, allora gli economisti arrivano alla conclusione che “il commercio fa aumentare il benessere”. Rawski partendo da questo concetto critica l’opinione secondo la quale in Cina vi sia una “crescita che crea miseria” tipica di un paese (o di una regione), sempre più coinvolto nell’economia globale, rilevabile dal suo “rapporto commerciale” (ossia dalla somma delle sue esportazioni ed importazioni come quota del PIL), mentre una quota sempre più ampia della popolazione subisce una riduzione del reddito. Secondo le rilevazioni dell’autore, nei primi anni 70 in Cina l’80% delle masse rurali era in stato di denutrizione con un’entrata media di 1 dollaro al giorno. Tra la fine degli anni 70 ed i primi anni 90, durante il periodo delle riforme,  più di 500 milioni di cinesi sono usciti dalla condizione di povertà, un record in tutti i sensi. Ma già nei primi anni 90 più di 50 milioni di lavoratori cinesi persero il lavoro e coloro che in seguito continuavano a perderlo, o non lo trovavano oppure vivevano condizioni peggiori del passato. Attualmente se si includono le famiglie di coloro che “perdono” il lavoro si può concludere che la classe dei “perdenti” costituisca il 5% dell’intera popolazione. Molte di queste persone appartenevano a strati della popolazione che in precedenza avevano un reddito superiore. La maggior parte di questi, insieme ai “perdenti”, continuano a rimanere ben al di sotto della fascia a più basso reddito presente in Cina.
In realtà la causa di tali “perdite” non è dovuta esclusivamente all’ingresso della Cina nell’economia globale. Gli enormi “guadagni” non si sono verificati in tutto il paese ma sono fortemente condizionati dalla partecipazione o meno di una regione all’economia globale. Forti miglioramenti nel benessere della popolazione si sono verificati nei distretti e nelle province coinvolte direttamente nel commercio internazionale, e qui si realizzano anche maggiori investimenti che attraggono un numero esorbitante di immigrati dalle regioni interne. Inoltre studi più particolareggiati che riguardano 90.000 imprese in 6 province che producono i 2/3 delle merci destinate all’esportazione, mostrano come nel 2002 il salario medio dei lavoratori delle imprese che esportano è più elevato di quelle che producono beni non destinati all’esportazione. In alcuni casi si rileva che i salari delle imprese del primo tipo sono considerevolmente più elevati. A parte la provincia dello Zhejiang, in tutte le altre i salari dei lavoratori di imprese destinate all’esportazione eccedono del 15% quello degli altri operai. Questi sono tutti elementi che sembrerebbero contrastare la tesi di una crescita che genera miseria. La tabella 4 sottostante di Rawski mostra i salari medi percepiti nel 2002 dai lavoratori delle imprese manifatturiere a seconda della Provincia  e dei prodotti se destinati o meno alle esportazioni

Tabella 4

                     Quota di export                   Salario medio                                                Indice salariale nelle
                                               (RMB٭ 1000-esclusi benefit aggiuntivi)                      Imprese export (salario
Provincia               2002         Tutte le imprese   Esportatrici    Non esport.                  nelle non export = 100)

Guangdong            36,0               13,82                    14,46              12,12                                 119,3
Jiangsu                   12,0               11,31                    12,46              10,15                                 122,8
Shanghai                14,0               19,17                    21,66              15,83                                 136,9
Hebei                       0,9                 8,41                    10,07                7,53                                  133,7
Zhejiang                  5,0                12,08                   12,42               11.48                                 108,3
Shandong                5,4                  7,99                     8,76                 7,22                                  121,5

(* RMB indica il remimbi, la moneta cinese)

Fonte Dati 2002
Vengono incluse le imprese solo se l’occupazione, i salari e le vendite sono superiori a zero
Imprese export sono attività in cui l’approvvigionamento di esportazioni è superiore a zero
Dal file  /prcdata/enterprise data 2002/workfile/chinadata/export wages by prov 2002 creato il 16 Giugno 2002
                                  
Permangono comunque delle difficoltà nell’analizzare la dinamica dell’economia cinese a causa del sistema di rilevazione dei dati sulla crescita del PIL, sull’andamento dell’occupazione e della produzione industriale, esistono però stime alternative a quelle ufficiali che ridimensionano i valori faraonici forniti dalle autorità statali e pubblicizzati dai mass media occidentali. Il grafico 3 sottostante mostra che negli ultimi dieci anni la crescita del PIL cinese (linea intera nel grafico) tende a diminuire pur in presenza di pronunciate oscillazioni. Più interessante l’andamento relativo all’incremento della produzione industriale (linea punteggiata) che presenta una tendenza declinante a partire dal 1994 con una ripresa a partire dal 2000[22]. Come è possibile assistere ad una crescita spettacolare del Prodotto Interno Lordo in un paese in cui, nonostante la produttività elevata, si registra un declino della produzione industriale che perdura da più di un decennio?


GRAFICO 3
Stime alternative della crescita in Cina
Crescita reale del PIL e della produzione industriale in Cina 1990-2003

Nota: L’andamento reale del PIL è dato dal tasso di variazione degli aggiustamenti stagionali del PIL reale (differenza logaritmica di quarto ordine) Gli aggiustamenti stagionali sono stati ottenuti utilizzando XII (metodo additivo). I dati sulla crescita della produzione industriale provengono dal CD rom dell’IFS (FMI.: Washington DC)

In effetti anche i lavoratori cinesi vengono ricattati da un esercito industriale di riserva sempre crescente. L’offerta di lavoro è condizionata in primo luogo dalla massa di individui che hanno raggiunto l’età lavorativa prodotti dal boom delle nascite di vent’anni fa, dai lavoratori che hanno perso il lavoro nelle aree rurali e si spostano verso le aree urbane in cerca di occupazione (94 milioni nel 2002); inoltre con le “ristrutturazioni” avviate nel 1998 hanno perso il posto 21 milioni di lavoratori delle imprese statali, che costituiscono una massa enorme di forza lavoro con molte difficoltà ad essere ricollocata. E’ quasi impossibile calcolare il tasso di disoccupazione in Cina. L’unico dato accettabile, secondo i canoni di rilevazione statistica dei paesi sviluppati, è quello registrato in occasione del Censimento del 2000, dal quale risulta che nelle aree urbane il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’8,27% con una punta del 9,43% nelle grandi metropoli, un valore altissimo che pone la Cina al terzo posto nel mondo dopo l’Italia (11,3%) e la Francia (10%). Se dovessimo correggere il dato ufficiale della Cina inserendo quei lavoratori ormai ”scoraggiati” che non cercano più una occupazione, quelli che lavorano part time od occasionalmente il valore verrebbe sicuramente raddoppiato  Ma se in Cina vengono realizzati profitti sfruttando in maniera intensiva la forza lavoro, senza favorire nuovi investimenti in capitale fisso che permetterebbero nuova occupazione, allora questi profitti dove si dirigono? 

Speculative China

Se negli Stati Uniti  il debito dei privati ha raggiunto livelli senza precedenti, ciò è potuto avvenire grazie ai bassi tassi di interesse che hanno caratterizzato l’epoca di Greenspan[23]. Così si è determinata una spinta verso un indebitamento sempre crescente da parte delle famiglie e delle imprese. Ma se tali capitali non sono stati utilizzati (se non in minima parte) per garantire gli standard di vita tipici della società americana o per nuovi investimenti in capitale fisso per quanto riguarda le imprese, allora quali sono le cause di questa montagna di debito che sta mettendo a rischio l’economia americana? Dopo il crollo della Borsa del 2000 si assiste poi ad una ulteriore impennata dell’indebitamento[24] che  ha spinto masse di capitale sempre crescenti verso la finanza speculativa ossia verso investimenti a rischio in nuovi asset ma non solo. Negli ultimi cinque anni si è verificata la più grande speculazione edilizia mai verificatasi nella storia americana. Singoli cittadini si sono indebitati per l’acquisto della casa e numerose società finanziarie si sono rivolte al mercato speculativo nel settore edilizio per conseguire nuovi profitti non più garantiti dagli andamenti dei titoli in Borsa, ma dalla rivalutazione di terreni e di edifici nelle grandi aree metropolitane. Questa ondata speculativa nel settore edilizio ha dato l’impressione di una ripresa dell’economia USA che in realtà era un artifizio. Infatti i prezzi nel settore sono cresciuti spaventosamente alimentando continui indebitamenti delle famiglie e delle imprese del settore.  Ma le Banche americane non erano in grado di garantire crediti a livelli così faraonici, tanto è vero che sono intervenute le imprese finanziarie private che ormai dominano il mercato del credito. Per poter garantire tali prestiti, il sistema bancario ha dovuto allora rivenderli sottoforma di “mortgage-backed securities” (Obbligazioni Ipotecarie) acquistate da numerosi investitori stranieri grazie alle garanzie offerte dal Governo, e tra questi i maggiori acquirenti sono state le Banche del Giappone, della Repubblica Popolare Cinese e del Regno Unito alle quali i proprietari di case degli Stati Uniti pagano regolarmente ogni mese la loro quota per riscattare l’ipoteca.  Tra il 2001 ed il 2004 il debito privato degli americani finito nelle mani degli stranieri è passato dal 30% al 42% ed è cresciuto negli anni successivi.
Secondo il Dipartimento del Tesoro la maggior parte dei titoli emessi dallo stato americano[25] sono nelle mani degli stranieri per un ammontare di 1380 miliardi di dollari. Solo nei primi sette mesi del 2003 la Cina ed Hong Kong  hanno accumulato 177 miliardi di dollari del debito USA. Attualmente dopo il Giappone è la Cina il maggior acquirente di tali certificati[26] tanto che nell’ultimo anno gli acquisti di tali titoli sono aumentati del 20%. e del 105% se rapportati al 2001. In definitiva anche in Cina ha preso il via, come è accaduto al Giappone nei primi anni 90, una ondata speculativa basata sul credito e sulla corruzione. Infatti le Banche statali della Cina e gli altri Istituti di Deposito hanno effettuato continuamente dei prestiti, molto discutibili, alle grandi imprese statali o a quelle legate al governo (Guanxi)[27], attraverso le politiche industriali dei burocrati di partito, o ad ambienti completamente corrotti. Ma sia le imprese statali sia quelle legate al sistema di potere non sono profittevoli, così grazie al guanxi vengono salvate regolarmente dalla bancarotta o dalla chiusura. La mancanza di profitti rende tali attività insolventi nei confronti delle quattro maggiori banche della Cina e degli Istituti di Deposito che si ritrovano sul collo non solo la mancata  restituzione del prestito, ma anche il mancato pagamento degli interessi. Infatti i capitali ottenuti a credito vengono investiti in asset ad alto rischio sui mercati finanziari (prevalentemente negli USA come abbiamo visto). Alcuni economisti ritengono che i costi legati al debito maturato dalla Repubblica Popolare Cinese ammonterebbero al 40% del PIL degli Stati Uniti.. Allorché il sistema del credito in Cina si dovesse bloccare, o meglio, cominciasse a declinare e le Banche, assieme agli Istituti di Deposito, dovessero essere costrette a chiedere la solvenza dei crediti concessi, allora si verificherebbe un disinvestimento negli asset sul mercato statunitense ed il debito USA farebbe crollare l’economia del paese più industrializzato del pianeta con la prospettiva di fare la fine dell’Argentina.    
Resta comunque il fatto che, alla luce delle dinamiche di sviluppo viste per il Giappone negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, Taiwan ed Hong Kong negli anni 60, Corea e Singapore negli anni 70, la Cina negli anni 80 e 90, tutte le fasi di crescita nella regione dell’Asia Orientale hanno sempre dimostrato che le prospettive di sviluppo dipendono essenzialmente da fattori interni




* antonio.pagliarone@fastwebnet,it (Milano Dicembre 2006)
[1] Che ho cercato di criticare nell’articolo “Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività” in Collegamenti n 10
[2] L’indirizzo del sito Left Business Observer è www.leftbusinessobserver.com
[3] I redditi reali sono suddivisi in percentili. Il 5% superiore è il reddito del 5% più ricco della popolazione americana, una volta che la popolazione stessa sia stata suddivisa in ventili ossia in 20 gruppi uguali ognuno pari al 5%. Il 20% medio è il 20% centrale una volta che la stessa popolazione sia  stata suddivisa in quintili ossia in cinque gruppi numericamente uguali ciascuno pari al 20% del totale.  Ovviamente il 20% più povero è il quintile con il reddito più basso. L'autore ha solo voluto prendere i tre gruppi più significativi (alto, medio, basso) scegliendo assai più piccolo
quello più ricco proprio per mettere maggiormente in evidenza le crescenti disuguaglianze nella distribuzione del reddito.
[4] Il Census Boureau considera ricchi coloro che hanno entrate annuali superiori a 999.999 dollari.
[5] Osservatori più attenti stimerebbero che nel periodo 1999-2004 all'interno del 5% superiore 1/5 di questo ovvero l'1%
superiore ha guadagnato moltissimo (a detrimento del restante 99%). Piano piano una quota sempre più piccola della
popolazione si sta prendendo tutto, tale è l'evoluzione tendenziale. Il vero balzo in alto del top 5% comincia dal 1981 mentre prima è quasi costante; e dal 1991 ha luogo un secondo salto ancora maggiore, prima della perdita degli ultimi anni. Complessivamente l'incremento  realizzato dal 5% superiore dal 1981 ad ora è a dir poco spaventoso.
Ad occhio e croce l'aumento medio annuo di reddito del 5% superiore è stato: 1967-1981 +0.8% , 1981-1991 +2.9% , 1991-2004 +3.5%
[6] Secondo uno studio veramente dettagliato del World Institute for Development Economics Research of the United Nations riferito all’anno 2000 la ricchezza nelle mani dei privati comprendente asset finanziari, terreni, costruzioni ed ogni altro tipo di proprietà ammonta complessivamente a  125 trilioni di dollari. Il 40% della ricchezza del pianeta è nelle mani dell’1% dei super ricchi, più di un terzo di questi vive negli Stati Uniti, il 27% in Giappone, il 6% nel Regno Unito ed il 5% in Francia
[7] Un rapporto sulla immigrazione di Steve Cammarota riferisce che gli immigrati costituiscono attualmente il 12,1 % della popolazione degli Stati Uniti e tra questi il 31% non ha una istruzione superiore.
[8] Secondo i dati forniti dal Labour Department negli Stati Uniti tra il 2001 ed il 2004 si è verificata una diminuzione del 4% delle entrate salariali relative ai lavoratori diplomati e laureati. Inoltre l’Economic Policy Istitute ha evidenziato per questi lavoratori una netta diminuzione dei benefit sulla sanità e pensioni.
[9] Vedi di Daniel Gross “Odd Jobs” (Lavori Spazzatura) in www.countdownnet.info analisi USA.
[10] Per quanto riguarda gli Stati Uniti nell’articolo di Daniel Gross si può osservare dal grafico sulle stime della disoccupazione che il “tasso aggiustato”  nel 2003 era pari al 9,9% rispetto al 5,7% ufficiale. Paolo Giussani nel suo “ I disoccupati ed il saggio di disoccupazione” riferisce che ormai nelle statistiche degli occupati degli Stati Uniti vengono inseriti anche coloro che lavorano un ora alla settimana. Per quanto riguarda stime più recenti se vengono presi in considerazione i “discouuraged workers” il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti si attesta attorno al 12%.
Sono molto interessanti le stime alternative sulle grandezze economiche fatte da esperti presenti in “Radical Statistics” (http://www.radstats.org.uk/journal.htm).  Sui problemi determinati dai criteri di rilevazione della disoccupazione e del concetto stesso di disoccupazione nel Regno Unito vedi The Production and Presentation of Statistics of Unemployment. Comparability Issues”.di John Adams, Hasan Al-Madfai, e Ray Thomas. Vedi inoltre “Is the ILO definition of unemployment a capitalist conspiracy?” di Ray Thomas in www.countdownnet.info teoria.
[11] Vedi Grafico 7 in “Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività” di Antonio Pagliarone. Interessante il grafico 6.3 a pag 134 in “Capitalism Unsleashed” di A. Glyn nel quale viene rappresentato il declino a partire dal 1960 degli incrementi relativi allo Stock di capitale fisso negli USA 
[12] Mike Rowbotham nel suo libro The Grip of Death rileva che nel Regno Unito ogni anno l’aumento del debito privato, sottoforma di prestiti agli individui ed alle imprese, ammonta a più di 60 miliardi di sterline. Il debito accumulato in Gran Bretagna sulle carte di credito, per i prestiti sulla casa, per effetto degli scoperti sui conti e sulle ipoteche ha superato per la prima volta il prodotto nazionale. Il debito dei privati è quindi aumentato del 10% fino a raggiungere agli inizi del 2006 i 1.158 miliardi di sterline.
[13] E’ curioso notare, come riferisce Matthew Spiegelman, Economista al The Conference Board, che tra il 1995 ed il 2002 ben 202.000 lavoratori abbiano perso il lavoro nelle imprese tessili americane mentre nello stesso periodo nelle stesse imprese della Cina lo hanno perso 1.800 mila. Nello stesso periodo la produttività del lavoro nelle industrie cinesi subiva incrementi annuali pari al 17% .
[14] Riferendoci a  “Costi di produzione, profitti e concorrenza” di Paolo Giussani (un paper ancora provvisorio purtroppo non pubblicato).
[15] Paolo Giussani “Costi di produzione, profitti e concorrenza”  specie il grafico n 6
[16] Paolo Giussani nel suo “Empirical Evidence for Trends towards Globalization”( in www.countdownnet.info Archives-world economy) studiando empiricamente l’andamento degli investimenti esteri dei paesi OCSE non solo smentisce i luoghi comuni legati alla ideologia della “globalizzazione dell’economia” ma mostra chiaramente che la maggior parte degli investimenti sono ancora prevalentemente orientati verso l’interno dell’area OCSE e riguardano sempre più il settore finanziario piuttosto che quello produttivo.  
[17] Il grafico è stato elaborato da Paolo Giussani
[18] Per quanto riguarda l’andamento del saggio del profitto in alcuni paesi europei interessante il grafico rappresentato in fig 6.6 (pag 146) in Capitalism Unleashed di Andrew Glyn (Oxford University Press 2006) nel quale per Germania Occ, Italia e Regno Unito  si nota un evidente declino a partire dai primi anni 50 fino ai primi anni 80 ed una successiva ripresa molto più modesta di quella USA. Per quanto riguarda il Giappone vedi fig 6,5 nello sesso volume in cui si nota un andamento declinante a partire dai primi anni 70 che perdura tuttora
[19] Paolo Giussani Miti e realtà del boom americano in www.countdownnet.info analisi USA specie il grafico 2. Nella prima metà del 2006 il mercato globale dei derivati ha raggiunto la cifra record di 370 mila miliardi di dollari.
[20] Per una critica ai luoghi comuni più diffusi sull’argomento rimando al mio “Ma il capitalismo si espande ancora?” di prossima uscita nella raccolta omonima pubblicata da Asterios
[21] Forse pochi osservatori hanno notato il continuo incremento dell’inflazione dell’1,4%l’anno e con una previsione futura ad un tasso del 3%
[22] Per una analisi emprica di lungo periodo vedi il paper  OECD-China Industrial Linkages: Trends and policy implications Directorate for Science, Technology and Industry specie il Grafico n 2
[23] Il Governatore della Federal Reserve  ha dovuto progressivamente diminuire il tasso di interesse, a livelli mai visti in precedenza, in seguito al crollo della Borsa verificatosi nel 2000 per evitare il tracollo dell’economia americana. 
[24] Un fenomeno analogo ma meno pronunciato si sta verificando in Gran Bretagna e via via negli altri paesi della Comunità Europea dove il debito ormai sta andando fuori controllo. In Inghilterra  sono stati accesi mutui per un ammontare di 1/3 sul totale dell’Europa, ossia un cittadino britannico ha un debito pari al doppio di quello di un europeo. Nel Regno Unito il debito al consumo ha raggiunto il record di 1,3 miliardi di sterline.
[25] Si tratta degliU.S. Treasury securities” ossia  Buoni del Tesoro, Titoli di Stato, Obbligazioni emesse dal Tesoro con scadenza da 1 a 5 anni dalla data di emissione e savings bonds”  particolari buoni di risparmio che possono dare interessi oltre trent’anni.
[26] La Banca del popolo in Cina possiede le più grandi riserve in moneta estera pari a 1200 miliardi di dollari ed ha indirizzzato i suoi investimenti verso titoli e Buoni del tesoro. Il Giappone è il maggiore creditore nei confronti degli Stati Uniti che hanno un debito verso il Sol Levante di 612 miliardi di dollari
[27] Guanxi è un sistema di reciproche obbligazioni, non nel senso che ad un favore ricevuto occorra subito ricambiare, ma intesa come necessità di scambio che prima o poi emergerà, e sarà puntualmente onorata, per rimanere all'interno del gruppo di relazione, che ciascuno si crea laboriosamente e con molta attenzione, e che è definito guanxi-wan.

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