domenica 27 novembre 2011

AUTONOMIA E ORGANIZZAZIONE

Connessioni per la lotta di classe
inverno 2011 Bologna

Autonomia e organizzazione

“La conoscenza teorica del fatto che il capitalismo dovrà crollare a causa delle sue contraddizioni, non impegna a sostenere che il vero crollo sarà un processo automatico, indipendente dagli uomini, senza gli uomini non esiste nemmeno l’economia”
P.Mattick

La crisi

La parola crisi è ormai sulla bocca di tutti, crisi che al di là del suo elemento fenomenologico, l’aspetto finanziario, è in realtà crisi complessiva degli attuali assetti capitalistici.
Investe cioè aspetti legati alla produzione e alla dimensione geografica del capitale stesso, che si riversano sul tempo e lo spazio di vita (cfr Generalizzazione della precarietà e dimensione metropolitana su www.connessioni-connessioni.blogspot.com).

La crisi ha accelerato i meccanismi di una accumulazione flessibile che per sopravvivere deve accrescere i margini di sfruttamento sulla forza lavoro, precarietà contrattuale e flessibilità produttiva sono oggi un binomio indissolubile. Questo porta con sé continue metamorfosi sul piano dello spazio, ovvero della dimensione geografica del capitalismo, rappresentata oggi dalla metropoli, nuovo paesaggio del pianeta.
La modificazione dello spazio in generale, e l’urbanizzazione in particolare, sono per il capitalismo un aspetto fondamentale, grazie al quale può essere assorbita l’eccedenza di capitale. Le crisi di sovra-produzione accelerano questi processi. Una grossa porzione della forza lavoro globale complessiva è impiegata nell’edificazione e nella manutenzione dell’ambiente costruito. Il processo di sviluppo urbano mette in moto capitali di importo ingente, solitamente mobilizzati sotto forma di prestiti a lungo termine. Gli investimenti alimentanti dal credito spesso diventano epicentro di una crisi.
L’attuale paesaggio è quindi modellato da una tensione perpetua tra le spinte economiche centralizzatrici, da un lato, e i profitti potenzialmente più elevati che si possono realizzare mediate la decentralizzazione e la dispersione, dall’altro. Gli esiti di questa tensione dipendono dagli ostacoli al movimento nella dimensione spazio, dall’intensità delle economie di agglomerazione e nella dimensione tempo dalla attuale accumulazione flessibile. In questo senso il binomio generalizzazione della precarietà/dimensione metropolitana, dentro gli attuali contesti di crisi, diventa inscindibile (1).


Aver presentato questa crisi ponendo l’accento sulla dimensione finanziaria da parte del pensiero dominante, non è solamente legato ad una spinta irrazionale che possiede il sistema stesso, ma esiste una scontro ideologico, che tende a negare l’elemento sistemico della crisi e quindi della dimensione storica del capitalismo stesso. Tutte le crisi hanno come momento fenomenologico l’aspetto finanziario, ma sono in realtà provocate da meccanismi produttivi precisi. Inoltre la crisi, sia sul piano della percezione diffusa, ma anche rispetto ai suoi aspetti analitici più profondi ci permette di considerare il capitalismo come un sistema storico con meccanismi di crisi specifici che tende al crollo.
Su queste basi, l’eterno dibattito intorno a riforme sociali e rivoluzione torna di impressionante attualità (2), dove se non esiste la necessità oggettiva della rivoluzione, non può esservi nemmeno la disposizione soggettiva a farla. Non basta quindi contrapporsi al riformismo, si deve necessariamente negare, per una ipotesi rivoluzionaria, la sua praticità, dimostrando che le contraddizioni interne del sistema capitalistico hanno al suo interno i virus della distruzione.
Definire la crisi, dentro una più generale dinamica dei limiti del capitalismo stesso, non rende superflua la volontà rivoluzionaria.
La volontà di abbattere il capitalismo non basta da sé, anzi nelle fasi iniziali del capitalismo una simile volontà non poteva neppure sorgere. Bisogna considerare in modo dialettico due aspetti: gli elementi oggettivi di disarmonia e crisi del capitalismo stesso e gli elementi soggettivi rivoluzionari, questi elementi si influenzano reciprocamente, fondendosi dentro le dinamiche della lotta di classe. Non si tratta di aspettare finché siano date le condizioni oggettive per poi, soltanto allora, lasciare agire le condizioni soggettive. Sarebbe una concezione meccanica anti-dialettica, che polarizza gli elementi, incapace di svelare la dinamica del processo.

La dinamica della crisi

Lo scambio capitalistico D–M–D’ (con D’>D) può presentarsi in tre modi: come capitale commerciale con cui si comperano merci a buon mercato per rivenderle più care giusto uno scambio a valori non equivalenti (quello che uno guadagna, l’altro lo perde): D<M<D’; come capitale industriale con cui si comperano mezzi di produzione e forza-lavoro per produrre merci poi vendute ad un valore superiore del valore anticipato per l’aggiunta del plusvalore ottenuto mediante lo sfruttamento del lavoro salariato: D=M...Produzione...M’=D’; infine come capitale finanziario, con cui si prestano denari per riceverli alla scadenza, senza nemmeno bisogno di transitare per le merci, maggiorati dell’interesse, così che lo scambio è di nuovo a valori non equivalenti: D<D’. Come si vede è soltanto il capitale industriale a rispettare la regola dell’equivalenza degli scambi, il che vuol dire che entrambe le parti implicate ci guadagnano perchè nuova ricchezza è creata, mentre nel capitale commerciale e finanziario ci scambi appena la ricchezza esistente (3). Questo ci fa capire che se la redditività cade nei settori produttivi, il capitale emigra nei settori finanziari dove maggiori profitti possono essere realizzati, ma questo movimento alimenta la bolla speculativa e alla fine la crisi finanziaria. Quindi l’origine della crisi finanziaria si trova nella sfera produttiva. (4)

L’enorme massa di capitali posti all’interno della finanza è l’emblema di un ciclo discendente e non ascendente dell’attuale fase del sistema capitalistico.
Il capitalismo invece di guadagnare e accumulare poco producendo molto e facendo consumare molto, guadagna e accumula enormemente producendo poco e soddisfacendo male il consumo sociale. La contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalistici è quindi destinato ad aumentare in linea di tendenza. Già Marx, aveva riconosciuto che il sistema del lavoro salariato è, in fondo un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa sempre più dura man mano che le forze produttive sociali del lavoro si sviluppano, tanto se l’operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio. Questa interpretazione va ben al di là della mera questione reddituale, individuando invece una contraddizione insita direttamente dentro allo stesso meccanismo del modello di produzione capitalista.

Questa contraddizione insanabile dentro il capitalismo non risolve assolutamente il problema della trasformazione stessa del capitalismo. Dietro allo scontro fra forze produttive e rapporti di produzione si nasconde necessariamente l’azione del proletariato contro lo sfruttamento, azione senza la quale non ci sarebbe nessuna trasformazione e rottura con il capitalismo. Il proletariato non come classe mitologica ma piuttosto classe conservatrice, che suo malgrado nei momenti d'azione tende a superare le vecchie forme sociali. Proletariato che non è definito con metri reddituali, ma dentro la sfera dei rapporti di produzione capitalista. Il criterio con cui definiamo il proletariato è estremizzando quello giuridico della proprietà dei mezzi di produzione ed ancora di più quello della proprietà del prodotto finito. Questa definizione assolutizza lo scontro, sul piano della spiegazione teorica, attorno a due classi precise. Nella dimensione empirica esiste una gamma di forze sociali che compongono queste due macro classi sociali, occorre tuttavia saper utilizzare il metodo marxiano dell’isolamento, cioè la costruzione di un modello che tratteggia solo gli aspetti fondamentali dei rapporti capitalistici e le loro leggi, per individuare le dinamiche complessive del capitalismo stesso. Inoltre le attuali dinamiche capitaliste, provocate dall’accumulazione flessibile isolano ancor più il proletariato come classe contrapposta a tutta la società nel suo insieme. Questa caratteristica assume oggi un’importanza maggiore a causa dell’estensione delle sue dimensioni e del processo di proletarizzazione.

La crisi non va letta dentro schemi “fatalistici”. Anche immaginando una crisi del capitalismo che non debba niente all’azione del proletariato, automaticamente non avremmo nessun elemento trasformativo. La miseria e l’oppressione possono generare delle rivolte, ma non necessariamente daranno inizio a una possibile rivoluzione. Bisogna però considerare il protrarsi della crisi nel tempo.
Se si considerano tempi brevi rispetto alla crisi se ne può ricavare che l’impoverimento e il processo di pauperizzazione non inducono in prima istanza tendenze rivoluzionarie, pur alimentando meccanismi di insicurezza sociale.
Se si analizza il perdurare della crisi, si può scorgere la critica diretta sul piano oggettivo di tutte le teorie che vedevano l’inevitabilità delle politiche di riforme o di integrazione assoluta del proletariato.

“Il conformismo ideologico dipende dalle condizioni di benessere; da solo non ha possibilità di esistere. Ma, a meno che qualunque ragionamento teorico sia completamente privo di valore, nella misura in cui esso permette di prevedere le cose, esso indica non solo una cessazione del benessere prodotto dal capitalismo, ma la fine del capitalismo stesso. Se la coscienza di classe dipende dalla miseria, non ci può essere dubbio che la miseria che attende la popolazione del mondo andrà oltre ogni esperienza finora fatta in materia, e finirà per travolgere le minoranze privilegiate delle nazioni capitalistiche avanzate, che ancora si credono immuni dalle conseguenze delle loro attività. Poiché non esistono “soluzioni economiche” alle contraddizioni del capitalismo, i suoi aspetti distruttivi vanno assumendo un carattere sempre più violento; all’interno, attraverso una produzione di spreco sempre più intensa; all’esterno, seminando distruzioni in quei territori dove. la popolazione rifiuta di sottomettersi alle esigenze di profitto del capitale straniero, che segnerebbe la loro definitiva rovina. Mentre la miseria generale aumenterà, anche le situazioni particolari di “opulenza” svaniranno, e i benefici della crescente produttività verranno dissipati in una feroce competizione per i profitti in declino della produzione mondiale” (P.Mattick, I limiti dell’integrazione)


Nuovi rapporti sociali

La resistenza del proletariato ha necessariamente per obiettivo quello di fissare il prezzo della forza-lavoro al livello del suo valore, cioè al suo costo di riproduzione. Comunque contrariamente a quello delle altre merci, il costo di riproduzione della forza lavoro non è determinato unicamente da considerazioni tecniche, ma anche dal rapporto di forza tra le classi. Agendo collettivamente su questo rapporto di forza il proletariato tende non soltanto a limitare il plus-valore, ma anche a riappropriarsi in parte della sua attività. Questa riappropriazione è sinonimo dello sviluppo di rapporti sociali antagonisti ai rapporti sociali capitalisti.
E’ importante osservare che si tratta di rapporti sociali e non di rapporti di produzione. Questi ultimi sono quelli che si stabiliscono fra le classi nella produzione sociale. Nel modo di produzione capitalista i rapporti fra il proletariato e la classe capitalista si caratterizzano per la separazione dei produttori dai mezzi di produzione, per la produzione di valori di scambio secondo la legge del valore. I rapporti sociali, d’altro canto, sono costituiti dall’insieme delle relazioni che si stabiliscono fra gli uomini che vivono la società. Oltre ai rapporti di produzione, comprendono quindi anche i rapporti familiari, giuridici, politici, i rapporti dei proletari fra di loro e con gli agenti diretti o indiretti del capitale (dirigenti, burocratici sindacali e politici, poliziotti preti, ecc…). E’ proprio dentro la contraddizione insita nei rapporti di produzione, che avviene lo sviluppo di nuovi rapporti sociali. I rapporti di produzione capitalistici tendono prima di tutto a provocare la sottomissione del proletariato al capitale, ma danno ugualmente origine a dei rapporti sociali che mettono in causa il capitalismo per la riappropriazione tendenziale dell’attività del proletariato.

Tale riappropriazione proletaria non è tuttavia legata all’attività produttiva stessa o al ridisegnare spazi, perché questo implicherebbe la sparizione stessa del capitalismo e questo non può avvenire localmente o parzialmente.
Nuovi rapporti di produzione comunisti non possono apparire, anche sotto forma embrionale, nella società capitalista. Il comunismo implica l’appropriazione collettiva da parte dei produttori dell’insieme dei mezzi di produzione che è distruzione dei meccanismi capitalistici. Questi mezzi nella società capitalista, sono propri dalla classe capitalista e tutta la società è basata sulla separazione radicale fra produttori e mezzi di produzione. Poiché produce merci, il capitalismo non lascia alcuno spazio, anche se limitato, a nessun tipo di controllo da parte dei lavoratori o sui mezzi o sui risultati della produzione, perché la legge del valore non permette altre iniziative che quelle che tendono all’abbassamento del costo di produzione. E’ anche vero che tale legge può essere infranta in modo temporaneo o localizzato (grazie, per esempio, ad una situazione di monopolio o anche all’intervento dello Stato): ma in questo caso non può trattarsi che d’un prelievo sulla massa del plus-valore sociale. Detto in modo più diretto, ogni tentativo di autogestione della produzione si risolve o in auto-sfruttamento o in una partecipazione allo sfruttamento altrui (o anche all’insieme delle due cose)

L’oggetto della riappropriazione non può essere che la lotta stessa dei proletari contro lo sfruttamento, sola attività che può sottrarsi almeno parzialmente al dominio del capitale. Ciò non implica che ogni lotta ha per effetto quello di sottrarre il proletariato al dominio del capitale.
Senza voler assolutizzare e farne una questione di forme rimane evidente che le lotte che sfuggono alla direzione degli agenti del capitale possono esercitare una maggiore forza contro lo sfruttamento.

Su questo aspetto bisogna essere chiari, in quanto lo stesso movimento operaio, e le sue organizzazioni hanno prodotto ciclicamente, pur attraverso lotte generose, una integrazione dello stesso dentro i meccanismi stessi del capitale. Detto questo sarebbe errato considerare inutili le lotte, i movimenti e le organizzazioni che si danno in periodi dove vi è un compromesso sociale o considerarle inutili perchè sconfitte o riassorbite dal capitale. Quelle stesse lotte, movimenti e organizzazioni rappresentano, anche se bloccati in un determinato contesto, espressioni dell’esperienza proletaria quando si sviluppano nuovi rapporti sociali (5).
L’esperienza proletaria ci dà il senso del rapporto dialettico che intercorre tra l’elemento soggettivo e quello oggettivo. Sarebbe miope non cogliere la tensione che ha mosso e muove milioni di persone a darsi forme di resistenza che attraversano anche gli attuali raggruppamenti politico/sindacali. Bisogna saper cogliere la funzione e il ruolo di questa resistenza rispetto alle condizioni oggettive.

Nuovi rapporti sociali si esprimono attraverso la direzione collettiva della lotta da parte di quelli che vi partecipano, sperimentando nuovi modi di vivere, che non si limitano a estendere i margini di autonomia che questa società accorda ai suoi membri, ma che negano la dimensione del capitale stesso. Questo fenomeno è, tendenzialmente sovversivo perché alla lunga è incompatibile con il mantenimento dei rapporti di produzione capitalisti.

Tali nuovi rapporti sociali esercitati dall’azione di riappropriazione del proletariato non sono qualcosa di fissato una volta per tutte. La persistenza stessa del capitalismo implica la distruzione dei germi del comunismo man mano che questi appaiono. Solo in lotte particolarmente ampie e violente che si sviluppano dentro a meccanismi di crisi del capitalismo stesso, tali rapporti sociali si potranno consolidare e diffondersi nel tempo e nello spazio.
Nel frattempo i nuovi rapporti si sviluppano dentro a crisi localizzate e a scontri parziali, arretrando o sparendo quando la normalità capitalista è ristabilita. Il loro sviluppo non è uniforme e comporta sia delle esplosioni più o meno violente e palesi che dei progressi sotterranei di lunga durata, la costruzione e la distruzione di organizzazioni o la loro integrazione da parte del capitale (6).

Cambio di paradigma

La crisi, ampliando le contraddizioni sul piano del tempo e dello spazio, permette di cogliere un’opportunità, facilitando il disvelarsi di nuovi rapporti sociali che possono nascere e radicalizzarsi proprio come risposta a queste contraddizioni. Siamo di fronte ad un importante rovesciamento di paradigma. Per molti anni la questione è stata la ri-distribuzione sociale di reddito, oggi il problema se si analizza da un punto di vista sistemico, è la produzione sociale stessa. L’estensione del rapporto D<D’, la sua dimensione feticistica, sono il segnale della sua debolezza e declino, e quindi riappare, proprio perché categoria centrale nel capitalismo, il rapporto DMD (denaro-merce-denaro), ossia il denaro nella sua duplice veste: da un lato è un mezzo di scambio, ma dall'altro diviene merce esso stesso. Questo è appunto il profitto, che trae origine esclusivamente dal plusvalore e quindi l’importanza del valore-lavoro dentro il rapporto di produzione capitalista, valore-lavoro che viene riscoperto dagli stessi capitalisti. Diversi sono anche i tentativi politici di rappresentare questa opzione, da quello anglosassone del new labour che diventa blue labour, a quelli bipartisan negli USA di Obama e del Tea Party, il primo attraverso la green economy, il secondo con l’autarchia produttiva, fino al nostrano centro-sinistra allargato che sogna un nuovo patto fra i produttori.
Questi decenni sono stati contraddistinti da meccanismi di resistenza legati alla difesa e re-distribuzione di reddito, prima attraverso battaglie salariali per strappare reddito, e poi successivamente, in una fase calante, per la difesa del vecchio compromesso keynesiano come barriera contro i meccanismi neo-liberisti. Le infinite discussioni e proposte legate al salario sociale, al reddito di cittadinanza, alla fine ruotavano attorno ad una idea di redistribuzione sociale più equa in una società che si muoveva attorno ai cardini dell’armonia e del progresso contrassegnati da uno sviluppo impetuoso delle dinamiche finanziarie. Oggi, con la crisi, per la mancanza di lavoro, per la precarietà, per la dimensione metropolitana diffusa, diventa centrale non tanto il reddito ma il lavoro e quindi al tempo stesso la sua possibile trasformazione. La resistenza diventa oggi offensiva perché tocca elementi legati alla generalizzazione del tempo e dello spazio.

Questo cambio di paradigma ci porta necessariamente a vedere più da vicino i limiti del capitale stesso e la possibilità della lotta di classe di rompere questo meccanismo. Ovviamente si tratta di un obiettivo impossibile da fissare nel tempo, ma questo non inficia la possibilità di muoversi fin da adesso dentro la “sfera della necessità” verso quella direzione. In questo senso oggi lo scontro in atto, subito o percepito che sia è quello attorno alla produzione, a cosa si produce, a quanto si produce e a chi produce, e questo assume una importanza immediata, dentro l’attuale passaggio di fase.

Questo non come neo-mitologia della tecnologia liberante, che ha come suo elemento speculare il mito del primitivismo e delle forme pre-capitaliste.
Ma sapere che la meraviglia della tecnologia che libera l’uomo dal peso del lavoro è una falsificazione ideologica che nasconde la realtà di un’organizzazione del lavoro sempre più dispotica e inumana, che trova nella tecnologia un valido ausilio, rimaniamo convinti che i lavoratori non sono contro le macchine, ma contro coloro che usano le macchine per farli lavorare. In questo senso ribaltiamo la definizione di irrazionalità, spesso utilizzata in chiave positiva per leggere le lotte dei proletari contro il capitalismo e la sua organizzazione del lavoro, l’irrazionalità è propria di questo sistema, anche quando attua politiche regolazioniste e di piano, perché queste rallentano ma non fermano la caduta tendenziale del saggio di profitto. La dimensione razionale è propria del proletariato nella sua tensione (diretta o indiretta che sia) dentro la lotta ad arrivare ad un passaggio che rompe con il modo di produzione capitalista. E’ indubbio che sul lato immediato la sua forza si esprime non nel costruire ma nel distruggere, per abbattere determinati ostacoli:

“Non solo il capitalismo ha da tempo costruito quanto a noi basta ed avanza come base –tecnica-, ossia come dotazione di forze produttive, sicchè il grande problema storico non è di crescere il potenziale lavorativo ma di spezzare le forme sociali di ingombro alla buona distribuzione ed organizzazione delle forze ed energie utili, vietando lo sfruttamento e il dilapidamento, ma lo stesso capitalismo ha troppo costruito e vive nella antitesi storica: distruggere o saltare” (A.Bordiga, Politica e –costruzione)

E’ in questo senso che l’attuale crisi diventa, se letta dentro gli attuali rapporti di produzione capitalista anche lotta non solo per la quantità di produzione, ma per la qualità di produzione, toccando quindi direttamente la vita.

Autonomia e organizzazione

Ritorna quindi, dentro le dinamiche della crisi, la possibilità di rimettere al centro la rottura rivoluzionaria (che anche solo posta sotto il profilo teorico è motivo di imbarazzo per la sinistra), che modifica il rapporto tra autonomia e organizzazione.
Negli ultimi 30 anni i meccanismi neo-liberali hanno polverizzato gran parte di quello che era stato il compromesso sociale partito dopo gli anni 30 e sviluppatosi dopo la II guerra mondiale. Questo polverizzava una certa composizione di classe e metteva in mora qualsiasi entità collettiva contrapposta ad una nuova vulgata che celebrava una visione neo-liberale dove la fine della storia era la giustificazione filosofica della fine della lotta di classe. In questi anni ogni ipotesi di autonomia di classe è stata marginalizzata dall’oggettività della fase. I meccanismi riformisti, anche nelle loro manifestazioni più antagoniste, sembravano dominare la scena.
Non è interessante giudicare il riformismo (anche antagonista) utilizzando canoni morali o ideologici astratti, ma osservare come tali forme erano e sono espressione di una debolezza della stesso proletariato, dove l’unico obiettivo delle organizzazioni era rivolto ad una possibile armonia sociale. Meccanismo dettato da una dialettica che legava i limiti soggettivi dei partecipanti delle strutture stesse all’oggettività della fase in atto. Questo non ci fa dire che nella notte tutte le vacche sono nere. Esistono responsabilità soggettive precise di determinate correnti politiche che hanno attraversato il movimento operaio, ma per comprendere il meccanismo è necessario andar al di là dell’accusa di tradimento.

L’accelerata scomposizione di classe ha portato alcuni a mettere al primo posto l’organizzazione “formale” identitaria, poiché unica possibilità per ricomporre questa polverizzazione. Un simile impianto è stato assunto da aree con approcci molto diversi tra loro: da strutture centralizzate, a forme assembleari e di movimento. Questa opzione porta inevitabilmente a perdere o a sottostimare la capacità autonoma dei proletari di lottare e lo stesso sviluppo di nuovi rapporti sociali. Si arriva a far coincidere il proletariato e le sue lotte con le forme organizzative, pensando ad un meccanismo numerico moltiplicatore progressivo. L’assenza di una analisi sulla crisi e i suoi effetti e quindi sulla storicità del modello di produzione capitalista ha portato ad un attivismo inevitabilmente rivolto a ricercare una armonizzazione dentro gli attuali rapporti di produzione capitalista, ritenuti ormai immutabili. Secondo questa modalità il solo piano che permette di vedere una possibile rottura è una crescita sul piano organizzativo formale.

Tuttavia il rapporto tra autonomia e organizzazione muta con il mutare delle varie fasi della lotta i classe, la sua oscillazione sta dentro la stessa contraddizione prodotta dalla lotta di classe stessa.
Esistono momenti organizzativi formali, ad ogni fase storica corrispondono volente o nolente determinate forme organizzative. In questo senso partiti, sette, collettivi informali, coordinamenti, sindacati non sono di per sé forme pure, perchè legati a uno stretto rapporto con il tempo e lo spazio. Se questo è vero sul piano generale, esistono tuttavia delle differenze tra le diverse forme, non tanto rispetto alle vecchia distinzione tra “economico” e “politico” (esistono forze politiche con privilegiano gli aspetti economici cosi come esistono forze sindacali che privilegiano aspetti politici), ma rispetto alla funzione che queste cercano di avere dentro la dinamica della lotta di classe stessa. In questo senso rifiutiamo di assolutizzare le forme, sia sotto i profili positivi, ma anche negativi. L’uno si divide sempre in due…

Oggettivo/soggettivo

Le forme delle lotte in cui si manifesta il rapporto tra autonomia e organizzazione anche quando vuol essere dettato da meccanismi soggettivi è inevitabilmente legato a determinati piani oggettivi. Le stesse forme non sono di per sé pure. Pensiamo al rapporto tra conflittualità e mutualismo, apparentemente rappresentanti di due dinamiche contrapposte fra di loro, possono sia essere recuperate entrambe cosi come possono giocare un ruolo nello sviluppo di nuovi rapporti sociali. La creazione di una mensa popolare o di un ambulatorio se inserito dentro un preciso meccanismo di relazione con l’elemento di conflitto e quindi di indipendenza di classe assume un ruolo che in una fase di generalizzazione della precarietà e di stagnazione capitalista, va ben al di là del welfare dei poveri, perché è anche’esso prodotto di nuovi rapporti sociali.
Oggi il binomio precarietà-metropoli in linea di tendenza polverizza i precedenti modelli di organizzazione del lavoro e le relative stratificazioni sociali ad esso collegate, creando un apparente meccanismo di individualismo totalizzante. La realtà è però ben diversa. Questa fase del capitalismo tende sul piano del reale a eliminare le differenze creando un elemento socializzatore, che quando si manifesta nella precarietà sociale diffusa e nell’estensione della dimensione metropolitana dentro una generale insicurezza sociale, non giustifica più il “conservatorismo” delle forme organizzative di determinati settori sociali, come ad esempio le categorie sindacali. Le vecchie forme organizzative politico/sindacali risultano sempre più inadeguate perché espressioni di una composizione di classe passata.

Oggi tutti parlano di precarietà e di metropoli, ma ancora si è lontani dall’aver compreso le implicazioni generali che una tale manifestazione sociale comporta, perché metterebbe in mora gran parte dei meccanismi organizzativi.

Quando si prova a far sopravvivere insiemi organizzati indipendentemente dalla fase che si attraversa, si creano meccanismi in cui la spinta trasformatrice viene assorbita dentro a meccanismi conservatori, che non solo li depotenziano, ma ne negano pure per molti versi il contenuto trasformatore, se non addirittura riformistico arrivando a difendere forme reazionarie. Il girare a vuoto dell’attuale riformismo antagonista, che non a caso riscopre parole come neo-keyneismo, protezionismo, autarchia o pianificazione statale collettiva, sono l’emblema della loro lontananza da una dimensione rivoluzionaria, incentrata sullo sviluppo di nuovi rapporti sociali. La generalizzazione di nuovi rapporti sociali dettata da meccanismi soggettivi e oggettivi si scontra nella fase in cui stiamo entrando con le vecchie forme del movimento operaio, e questo conflitto è inevitabile. Non parliamo di una battaglia risolutiva ma di una dinamica che attraverserà l’intera fase in atto che si è aperta oggi.

Se si assolutizza il dato oggettivo si arriva a considerare inutile ogni attività, ma come si è detto prima solo l’azione del proletariato diventa forza trasformatrice, e lo stesso proletariato non è un essere mitologico, ma un insieme composto in cui interagiscono elementi soggettivi e oggettivi, dove l’esperienza proletaria diventa condizione imprescindibile per l’azione autonoma stessa. Quindi anche se detto in modo rozzo, si dovrebbe relativizzare sempre l’agire soggettivo, che rimane comunque imprescindibile per lo sviluppo dell’esperienza proletaria. Quindi diventa necessario capire la tensione che si esercita sul lato soggettivo. Tensione che deve necessariamente mettere al centro la direzione diretta di chi lotta, così come il rifiuto all’armonia sociale, perché non vi può essere trasformazione se non dentro una tendenziale rottura rivoluzionaria degli attuali rapporti di produzione capitalista, in questo senso direzione, rispetto a chi direttamente è coinvolto, funzione, per lo sviluppo di nuovi rapporti sociali e prospettiva, guidata dalla critica dell’economia politica e della politica come dimensione di classe, sono elementi che devono essere necessariamente visti in un rapporto dialettico tra loro.
L’esperienza proletaria come dato affermativo è la condizione primaria per la negazione del proletariato stesso, che è poi il significato del comunismo nella sua forma più piena. Togliere quindi dall’astrazione ideologica la politica della sinistra e delle sue organizzazioni contribuisce a portare il terreno di scontro dalla totalità astratta ed universale delle politica alla totalità concreta della lotta di classe e dei rapporti sociali capitalisti.

La critica della politica

Lo sviluppo di nuovi rapporti sociali critica direttamente l’economia politica, ma produce anche una critica della politica stessa. Bisogna avere la capacità di cogliere le contraddizioni interne alla classe, in mancanza di questo si ricade in mediazioni esterne alla stessa classe o in locuzioni metafisiche come il ritenersi soggetto storico degli interessi di classe, elemento che ha contraddistinto la pratica della sinistra rivoluzionaria o riformista in modo identico.
Sulla separazione tra interessi storici e attuali di classe si è giocata e si gioca ancora oggi tutta la liturgia di gran parte di quello che si auto-definisce sinistra: ossia il pensare di poter risolvere sul terreno del potere politico il problema della trasformazione radicale della società, sull’autonomia della lotta politica, un progetto di rovesciamento dei rapporti sociali, in questo senso grillini, democratici o leninisti sono la stessa cosa.

Al di là della critica empirica che si può fare a questo modello, mai come oggi lontano anni luce dalle dinamiche sociali reali, è necessario mettere a fuoco il rapporto tra sviluppo e crisi nel capitalismo per capire la critica di fondo di un simile impianto.

Il capitale, a come perno il rapporto lavoro e capitale, modello di tutti i rapporti sociali, cerca tuttavia di nasconderlo, cioè di annullare il rapporto di classe nella società e nei meccanismi politici di rappresentanza degli interessi. Esiste quindi un rapporto tra lavoratori e sistema sociale complessivo, cioè un capitale totale che assolutizza tutto/i.

Il limite dei “politici” sta dentro questo rapporto, nel provare a rappresentare il conflitto senza accorgersi dei meccanismi di formazione della rappresentanza politica e della funzione stessa delle forme istituzionali in cui il potere si esprime nella società borghese, attestandosi alla sua forma feticista.
Non è un caso che la forma più elementare di indipendenza di classe durante una fase di estensione di nuovi rapporti sociali sia il rifiuto istintivo del parlamentarismo e del sindacalismo stesso visti come luoghi e tempi separati dell’affermarsi dell’autonomia del proletariato e della sua capacità d’azione e trasformazione, rompendo immediatamente le gabbie di questa presunta totalità. Essi dimostrano con le parole e i fatti che la società nella sua totalità non è cosa che li riguardi, dal momento che non esiste una società davvero complessiva finché non saranno abolite le classi sociali e gli istituti che li rappresentano.
In queste specifiche fasi tali manifestazioni non sono legate all’anti-politica, ma alla critica della politica stessa. Questo non impedisce in una fase di armonizzazione successiva che la critica della politica ritorni ad essere semplicemente anti-politica, il cosiddetto per dirla in modo volgare qualunquismo che è passività e integrazione.

Apparentemente la dialettica autonomia-organizzazione sembra irrigidirsi in una ripetizione incessante, in forme non sempre nuove, di un processo che vede nella conservazione e recupero capitalista un male inevitabile, questa dinamica esiste, ma esiste parallelamente lo sviluppo per salti di una esperienza proletaria.
La crisi può aprire contraddizioni che mettono in moto nuovi movimenti di classe, che possono far riapparire istanze autonome, se queste avranno la forza di esercitare una critica alla politica, rompendo e sottraendosi al ciclo del flusso e del riflusso che fa oscillare il rapporto autonomia e organizzazione. In questo senso si dovrebbe aprire un terreno di analisi che ricerchi i limiti della lotta di classe direttamente all’interno del processo di espansione-crisi del capitale, ponendo quindi il rapporto tra autonomia e organizzazione dentro questa dinamica.
Autonomia (spontaneità) e organizzazione (formalizzazione) sono legate da un nesso preciso: la necessità capitalista e lo svolgersi del processo capitalista di dominazione di tutte le organizzazioni sociali, il cosiddetto capitale totale. In questa prospettiva non è casuale che nei momenti alti dello scontro di classe, quando si percepisce la forza autonoma dei proletari, entrino in crisi tutte le aggregazioni sociali, dalla famiglia al sapere organizzato nelle scuole e nelle università , cosi come la stessa morale borghese o i codici organizzativi fin qui praticati, ma non è altrettanto casuale che poi questa critica radicale, nata dentro i processi di affermazione di autonomia del proletariato, degeneri in critica parziale, utile a chi dalla nuova gestione vuole trarre elementi di potere.

Oggi il problema non è quello di aiutare i proletari, per l’attivismo politico, ma mettere al centro e partecipare a questi nuovi rapporti sociali quando si sviluppano, dove all’interno esistono elementi dialettici tra la dimensione autonoma e organizzativa.

Agire in un comitato di lotta, in un sindacato, in una associazione per un militante non è rivoluzionario o contro-rivoluzionario, il problema è capire la propria funzione e al tempo stesso capire il limite della stessa struttura dove si opera, anche per arrivare a negarla quando questa si muove direttamente contro lo sviluppo di nuovi rapporti sociali. Mitizzare la spontaneità, che è la faccia rovesciata del mito dell’organizzazione al di sopra di tutto, arriva ad una forma di impotenza o confusione. E’ innegabile che le strutture stabili vadano in contro a quei meccanismi di irrigidimento e di conservazione o integrazione vera e propria, come veri e propri centri di potere. L’egemonia e il controllo diventano gli unici assi centrali (in una fase di armonia sociale questi tratti diventano patologici). L’unico modo per provare a contrastare questa degenerazione, battaglia che diventa ancor più necessaria dentro una estensione di nuovi rapporti sociali, è mantenere al centro il rapporto tra direzione, funzione e prospettiva. Il punto quindi non è avere una struttura che si pensa artificialmente al di sopra della classe stessa, o il non averla, ma sviluppare meccanismi collettivi e condivisi sempre in discussione.

Ciò che bisogna inoltre cogliere è il rapporto che collega l’apparato di produzione all’istituzionalizzazione delle forme politiche. I meccanismi di rappresentanza politica all’interno del sistema sono parte e prodotto del capitale. Proprio mentre la “politica di sinistra” riscopre il problema della democrazia e della rappresentatività, il proletariato, quando si manifesta in nuovi rapporti sociali, apre una critica della democrazia a partire non dagli astratti e sempre parziali rapporti di potere, ma dalla critica dei meccanismi capitalisti di espropriazione dalla volontà della lotta, dalla capacità di autodeterminazione e protagonismo. Diventa quindi necessario passare dal piano della rappresentazione/rappresentanza a quello dell’essere.

Capire le forme e i contenuti che ha assunto fino ad oggi la lotta di classe attraverso l’apertura di nuovi rapporti sociali è un compito che è possibile assolvere solo mettendo in crisi una concezione lineare della lotta di classe e dei suoi processi organizzativi che per buona misura rimane l’ideologia costante della sinistra.
Capire il problema della conservazione delle organizzazioni e insieme quello della integrazione ai meccanismi del sistema produttivo capitalista, significa già oggi fare un passo in avanti nel processo di organizzazione autonoma del proletariato condizione fondamentale per un piano di rottura rivoluzionario. Questo non ci condanna all’inattivismo, anzi ci permette di capire che per agire bisogna capire dove siamo e dove vogliamo andare.

Connessioni x la lotta di classe
Inverno 2011, Bologna

Note

1) D.Harvey, L’enigma del capitale
2) Il testo della Luxemburg, riforma sociale o rivoluzione?, al di la dei limiti storici e metodologici, racchiude ancora in se la domanda che divide chi si pone sul terreno dell’economia politica e chi della critica dell’economia politica.
3) G.Gattei, Storia del valore lavoro
4) G.Carchedi, Dietro e oltre la crisi,
5)”Il proletariato si afferma come classe autonoma, di fronte alla classe borghese, solo quando ne contesta il potere, vale a dire il modo di produzione: in altre parole, lo sfruttamento stesso. E’ il suo comportamento rivoluzionario che costituisce il suo essere classe. Non è incrementando i suoi attributi economici che il proletariato trae il senso di essere classe, bensì negandoli radicalmente per istituire un nuovo ordine economico”, C.Lefort, L’esperienza proletaria
6) H.Simon, Il nuovo movimento

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